Il governo Renzi va all’assalto dei beni comuni.

14620090691_3fccc1e50f_zdi ALBERTO ASOR ROSA, Il Manifesto, 30 Luglio 2014. Quando si scrive di politica… quando io scrivo di politica, mantengo sempre, per quanto mi riesce, un atteggiamento di dubbio formale e sostanziale. Sì, è così, mi sembra che sia così, però… Delle affermazioni e conclusioni contenute in questo articolo sono invece assolutamente certo. Verrebbe voglia di dire: allarme, cittadini, sono in pericolo la vostra esistenza e il vostro futuro, e quelli dei vostri figli. Levate la testa prima che sia troppo tardi. Mi riferisco agli atteggiamenti e alle promesse che il governo Renzi dispensa a piene mani in materia di ripresa economica e, contestualmente, di ambiente, territorio, beni culturali, paesaggi italiani. Non c’è in giro il minimo straccio di piano industriale. Ma in compenso c’è, a quanto sembra, un piano ormai pensato ed elaborato, anche nei suoi particolari dispositivi di attuazione, per quanto riguarda il già troppo martoriato volto del nostro paese, cui si continua a ricorrere, in mancanza di altro, tutte le volte in cui si deve dare l’impressione di rimettere in movimento la macchina. Qui il più spregiudicato nuovismo coincide con il più arretrato vecchismo: come, per l’appunto, rischia di essere sempre più naturale in questo nuovo contesto. Il discorso potrebbe, anzi dovrebbe, essere assai lungo. Io invece mi liniterò a disegnare una traccia del possibile, anzi, ormai facilmente prevedibile percorso che ci sta davanti. Bisogna infatti, in questo caso più che in altri, essere pronti a prevenire, piuttosto che aspettare, come sempre più spesso accade, che i giochi siano fatti. Le mie fonti sono esclusivamente quelle parlamentari (dibattito, decreti legge e disegni legge, ecc.) e quelle rappresentate dalla grande stampa d’informazione: le une e le altre, mi pare, attendibili. Si leggano, ad esempio, se ancora non lo si è fatto, gli articoli apparsi recentemente in rapida successione su “la Repubblica”. Già i titoli esprimono con sufficiente eloquenza di cosa si tratti: «Entro fine luglio arriva “SbloccaItalia” » (2 giugno); Renzi: «sbloccheremo 43 miliardi» (24 luglio); «Arriva lo SbloccaItalia: permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate, fuori le imprese in ritardo» (28 luglio); le anticipazioni non fanno molta differenza fra le opere in ritardo per motivi burocratici o altro, e quelle nei confronti delle quali si è manifestata la consapevole opposizione dei cittadini in nome di una vivibilità che fa tutt’uno con il rispetto del territorio e dell’ambiente. Anzi: facendo intenzionalmente (ripeto: intenzionalmente) di ogni erba un fascio, si adotta la parola d’ordine dello sviluppo a tutti i costi, lanciando anatemi contro tutti i coloro che vi si oppongono in nome di sacrosante pretese. In un’intervista al «Corriere della sera» (13 luglio) il nostro leader tira fuori la parte più consistente della sua personalità etico-politica: «Nel piano SbloccaItalia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario… Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni fra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini.…». È noto che il disprezzo che cala dall’alto si esprime sempre attraverso un tentativo di ridimensionare la portata degli eventuali antagonisti: «comitatini», appunto, come Minzolini? ecc. ecc.

Il miracolo della bozza Ma le ultime anticipazioni indicano con chiarezza ancora maggiore in quale direzione si muove questo nuovo-vecchio grande piano di sviluppo. Il giornalista di Repubblica (in questo caso Roberto Petrini, 28 luglio) spiega infatti che «secondo una bozza del testo… si andrebbe incontro a una piccola rivoluzione nel rilascio delle concessioni edilizie…». E cioè: «Con la riforma ci si potrà rivolgere direttamente allo sportello unico, muniti di autocertificazione con le caratteristiche essenziali del progetto, realizzata da uno studio professione, che testimonia il rispetto del piano regolatore e delle altre norme urbanistiche. A quel punto lo sportello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispondere, nel caso contrario si potrebbe procedere ai lavori…». Sembra di avviarci a stare nel paese di Bengodi. Lo sportello unico! Trenta giorni di tempo per rispondere! Non sarebbe più semplice dire che in Italia si potrà intraprendere qualsiasi iniziativa edilizia (e consimili, naturalmente), senza che vi sia più la possibilità di entrare nel merito? L’appello, contemporaneo e conseguente, che il Premier ha rivolto ai Sindaci affinché presentino la lista delle loro opere incompiute o non iniziate mira a costituire una imponente galassia di interventi, mediante la quale premere sull’opinione pubblica per ottenere il più largo consenso. Parallelamente al profilo d’interventismo attivo delineato da progetto di Sbloccaitalia si è mosso il disegno di legge «per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo» che di fatto è una vera riforma del Ministero dei Beni culturali ed è stato votato dalla Camera dei Deputati il 9 luglio scorso. Le idee basilari mi sembrano due: (1°. Innanzi tutto l’idea che il patrimonio culturale e artistico, di cui gode l’Italia, vada considerato nei suoi aspetti di massa economica potenziale da sfruttare fino in fondo più che come un bene universale umano, innanzi tutto da tutelare e (2°, conseguente al primo, il tentativo di sbarazzarsi il più possibile delle competenze e, sì, anche delle resistenze del personale tradizionalmente investito dallo Stato italiano del compito, innanzi tutto, di difendere e preservare quel patrimonio da ogni possibile offesa, comprese quelle che potrebbero provenire da una prevalente prospettiva di sfruttamento turistico-monetario.

Annientare le resistenze La lettura ragionata di questo disegno legge richiederebbe quattro pagine intere del manifesto (ne ha ragionato a lungo Francesco Erbani sul «manifesto» del 16 luglio). Scelgo il punto che, secondo me, per le sue possibilità di generalizzazione, presenta il valore simbolico più elevato. All’art. 12 della Legge suddetta è stato inserito in Commissione un emendamento (da chi? Non lo so), che suona in codesto modo: «Al fine di assicurare l’imparzialità (!) e il buon andamento dei procedimenti autorizzativi in materia di beni culturali e paesaggistici, i pareri, i nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, rilasciati dagli organi periferici del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, possono essere riesaminati d’ufficio o su segnalazione delle altre amministrazioni coinvolte nel procedimento, da apposite commissioni di garanzia per la tutela del patrimonio culturale, costituite esclusivamente da personale appartenente ai ruoli del medesimo Ministero»… Trovo stupefacente questo passaggio. Se lo si dovesse applicare fino in fondo, e a questo mira il disegno di legge — verrebbe affermato il principio secondo cui un altro funzionario dello Stato, e tale è il cosiddetto Soprintendente — potrebbe legittimamente essere sospettato di svolgere la propria funzione non obiettivamente e in vista d’interessi terzi. In base a tale visione del mondo, si potrebbero allo stesso modo prevedere commissioni di garanzia destinate a rivedere ed eventualmente sanzionare i presidi e i professori che portano a termine uno scrutinio scolastico o un gruppo di medici e di sanitari nell’atto di pronunciare una diagnosi o di compiere un’operazione. Allo stesso atteggiamento (o analogo) va condotto il principio secondo cui i grandi poli museali del paese non possono essere retti da Soprintendenti collocati nelle strutture dello Stato, e andrebbero invece demandati a manager non pubblici, la cui formazione e scelte dipenderebbero unicamente dalla capacità loro di fare fruttare il patrimonio culturale, che si sono trovati a gestire (con criteri inevitabilmente politici).

In difesa del Sistema Ce n’è abbastanza, insomma, sull’uno come sull’altro versante, per prevedere e organizzare una vera e propria guerra contro questa spropositata pessima tendenza. Osservo semplicemente, a questo proposito, che, al di là delle molto spesso troppo arzigogolate discussioni in merito alle cosiddette riforme istituzionali (Senato, e tutto il resto), qui, appare con evidenza massima che non c’è differenza, non c’è davvero nessuna differenza su questo più concreto terreno fra ideologia e visione del mondo del Ministro Lupi e quella del presidente del Consiglio Renzi. Ambedue appartengono a pieno diritto al partito unico della presunta razionalizzazione del sistema, la quale si rivela contraria, anzi antitetica non solo alle buone idee della sinistra ambientalista e democratica ma persino alla perpetuazione del vecchio sistema statuale borghese, imperfetto ma in una certa misura garantista. Le associazioni ambientaliste e i Comitati hanno abbastanza voce per farsi sentire. Perché questo accada, non basta però la buona volontà. Bisogna avere la consapevolezza che questa è una battaglia decisiva, per organizzare la quale occorre preliminarmente una concertazione programmatica di grande serietà e intelligenza. Proviamoci.

Caro Ministro Lupi, ti scrivo…

imagesdi PAOLO BALDESCHI, su Eddyburg, 27 Luglio 2014.

Caro Ministro Lupi,

sollecitato dall’invito a partecipare a una futura consultazione pubblica sul suo disegno di legge “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”, mi permetto, in anteprima, di esprimere il mio pensiero Dopo avere letto, con una certa condivisione, nel primo articolo che “il governo del territorio consiste nella conformazione, nel controllo e nella ge­stione del territorio, quale bene comune di carattere unitario e indivisibile”, sono stato insospettito dal fatto che lo stesso articolo recita che “le politiche del «governo del territorio» garantiscono la graduazione degli interessi in base ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili.”

Di quali interessi si tratta? Il testo del disegno di legge lo chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio: sono gli interessi dei proprietari immobiliari che devono essere tutelati, sostenuti e promossi dagli enti locali, che – volenti o nolenti – devono assecondarli con accordi fuori o dentro gli strumenti urbanistici. Di più: al di là delle petizioni di principio, appare con tutta evidenza che il disegno di legge considera il territorio come supporto neutro e indifferenziato per l’attività edilizia; di fatto, l’articolato non si occupa di paesaggio, ambiente, territorio, intesi come patrimonio della collettività ma di quanta volumetria vi si possa spalmare, in forma di espansione urbana (soprattutto) o di “rinnovo urbano”, quest’ultimo usato come un grimaldello per aggiungere metri cubi a metri cubi. Che questa sia la finalità del legislatore Lupi, che non vorrei avesse come modelli culturali di riferimento le imprese dei vari Ligresti, Zunino e simili gentiluomini operanti nella sua Milano,  è chiarito già al comma 4 dello stesso primo articolo su “oggetto e finalità della legge: “Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà“.

Questo è il primo obiettivo della Legge; il secondo, complementare, è di sottoporre alla regia e ai voleri dello Stato (leggi: Governo) le eventuali Regioni che andassero contro corrente o reclamassero l’esclusività delle competenze in materia di pianificazione urbanistica; la legge introduce, infatti, un misterioso strumento di promulgazione statale, la Direttiva Quadro Territoriale (DQT), che “garantisce l’espressione della domanda pubblica di trasformazione territoriale che la pianificazione paesaggistica deve contemplare” Sì, avete capito bene: la DQT garantisce che la “domanda pubblica di trasformazione territoriale” (cioè alta velocità, grandi opere, e perché no, tutte le operazioni private battezzate in qualche modo di interesse pubblico) non sia ostacolata da fastidiosi intralci, come, ad esempio, i piani paesaggistici: con un rovesciamento dei valori e delle finalità sanciti nella Costituzione vigente che, non a caso, il duo Renzi-Berlusconi vuole stravolgere in senso autoritario.

E via via nell’articolato della legge è un crescendo di disposizioni dove l’urbanistica è intesa come contrattazione dei metri cubi  con l’iniziativa privata: “La legge regionale determina per ogni ambito territoriale unitario … i limiti di riferimento di densità edilizia” (art. 6). “Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica…. Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi” (art. 7). “La disciplina della conformazione della proprietà privata… rispetta il principio di indif­ferenza delle posizioni proprietarie”. “Le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati dalle operazioni” (art. 16). Fa da corollario l’abolizione degli standard di legge del DM 1444 del 1968, evidentemente per ridurne la quantità minima obbligatoria, dato che nessuno ne impedisce una dotazione più generosa. Il tutto in un testo che in non poche parti appare confuso e contraddittorio, ma da cui scompare non solo il governo del territorio “in tutte le sue componenti, culturali, ambientali, naturali, paesaggi­stiche, urbane, infrastrutturali” (art. 1), ma scompare anche la stessa urbanistica; l’evidente paradosso è che una legge che vorrebbe essere di modernizzazione non solo è culturalmente più arretrata della storica legge 1150 del 1942, ma sembra un tragicomico ritorno agli anni ’50 e ’60. E’ cieca e sorda al fatto che “lo sviluppo” e la “competizione urbana” in Europa, nel 2014, si gioca sulla valorizzazione dell’ambiente, del paesaggio, della qualità della vita, sul risparmio di suolo (per incentivare il quale la legge – udite udite – propone di diminuire gli oneri di urbanizzazione a chi costruisce con maggiori densità). Nella legge del Ministro Lupi i veri protagonisti sono i diritti edificatori creati artificiosamente attraverso i principi di indifferenza, perequazione, compensazione e premialità (gli enti pubblici possono attribuire agli attori della riqualificazione urbana ulteriori metri cubi). Diritti edificatori che volteggiano sul territorio per atterrare dove proprietari e Comuni si mettano d’accordo. Un ulteriore corollario: gli enti locali dovranno adeguare i loro strumenti urbanistici, in sostanza rifarli ex novo, sulla base di una disciplina paesaggistica e alla nuova legge fra loro conflittuali nella sostanza e incompatibili da un punto di vista giuridico.

Mi permetto, in conclusione, di dare un consiglio al Ministro Lupi. Getti il suo disegno di legge nel cestino della carta straccia. Si ispiri a delle buone leggi regionali di vero “governo del territorio”, ad esempio al disegno della nuova legge toscana. Sostituisca o integri il team che ha formulato la Legge, composto quasi esclusivamente di avvocati e di esperti di diritto con qualche vero urbanista, oltre al buon Franceso Karrer, in questi giorni da lei nominato Commissario dell’Autorità portuale di Napoli. E per gli amici di eddyburg un invito: partecipate numerosi alla consultazione promossa dal Ministro. Sperando che qualcuno nel governo si ravveda: il governo del territorio non è cosa che riguardi solo il Ministro delle Infrastrutture. Rifiutare la legge Lupi – più ancora che l’articolato il principio che lo ispira, la sacralizzazione di un diritto edificatorio ubiquitario – non è di “sinistra” o di ispirazione ambientalista, ma solo mossa di buon senso: vale a dire essere consapevoli che garantire e cristallizzare la rendita immobiliare e pensare all’edilizia come propellente dell’economia  è quanto meno di moderno e intelligente si possa fare in un paese dove (dati ISPRA 2013) si consumano annualmente quasi 22.000 chilometri quadrati di suolo. Ma evidentemente per Lupi & Co. questo non è ancora sufficiente.

Si veda anche l’intervento del 28 maggio, sempre su Eddyburg, di MAURO BAIONI.

Cosa rimarrà delle Apuane.

magghianiIntervista con Maurizio Maggianidi SIMONE SILIANI, su Cultura Commestibile 84, luglio 2014. Abbiamo intervistato lo scrittore Maurizio Maggiani sul conflitto che si è consumato nei giorni scorsi intorno alle Alpi Apuane sul Piano Paesaggistico della Regione Toscana. Maggiani, già vincitore del premio Campiello e il premio Viareggio con “Il coraggio del pettirosso” nel 1995.  Nel 2005 ha vinto, con il romanzo “Il viaggiatore notturno”, i premi Premio Ernest Hemingway e Premio Parco della Maiella e il Premio Strega. Nato a Castelnuovo Magra è uomo di montagne.

Siliani – Nei giorni scorsi, sulle Apuane, si è combattuta una battaglia: cavatori (o meglio imprese) vs. ambientalisti, intorno al Piano Paesaggistico redatto dall’assessore Marson per la Giunta Regionale Toscana. Sembra una guerra fra chi considera il paesaggio un bene privato (o comunque, asservito all’interesse privato) e un bene comune, fra l’egoismo e l’altruismo. Tu hai raccontato la vita delle genti di Vagli nel Distretto, incastonato fra i monti delle Apuane e le vallate della Garfagnana in Meccanica Celeste. Il Distretto è forse il vero protagonista del tuo libro: quell’ambiente naturale e mitologico, in cui la giovane della tribù delle montagne piange l’uccisione da parte delle centurie romane del suo amato principe guerriero della piana pisana e lo piange tanto da plasmare con le sue lacrime un’intera montagna (l’Omo Morto). Ci racconti queste montagne, questo paesaggio dal punto di vista delle genti di Vagli?

Maggiani – Il paesaggio raccontato dalle genti di Vagli bisognerà chiederlo a quelli di Vagli, di cui non conosco nemmeno la lingua e credo nessuno fuori da Vagli sappia nemmeno capirla bene tanto sono riservati. Io non so cosa sia il paesaggio per i misteriosi abitanti di Vagli; posso intuirlo attraverso le loro azioni, attraverso il modo che hanno di vivere, il modo che hanno di rappresentare la propria vita e che è una vita dentro un paesaggio. Voglio però prima fare una precisazione. Io non sono un ecologista, perché non ho la cultura dell’ecologia essendo figlio di contadini. Se c’è della gente che non riesce ad afferrare la cultura ecologista sono proprio i contadini perché per loro la natura, intesa come luogo inumano, è una assoluta estraneità. Il contadino si rapporta con la natura in genere, con gli animali, con il paesaggio, con gli esseri viventi e soggiacenti di vita come le pietre, per sé, per la sua vita. La natura che il contadino capisce è la sua vita; dentro quella vita, la propria vita. Se mio nonno Garibaldi lo mettevi davanti ad un paesaggio selvaggio, la prima cosa che gli veniva in mente è “chi è che mettan il vigne? Chi mettan di coi? Chi’l che porta l’acqua a le bestie?” Questo è importante perché io parto da lì, quella è la mia cultura. Non esiste per me il concetto di valore a sé, L’ecosistema comprende anche gli umani; come comprende gli scorpioni e la grandine. Ora, forse gli scorpioni e la grandine hanno poche amicizie in giro, però sono parte dell’ecosistema. I cavatori sono parte dell’ecosistema e lo sono, forse, anche gli ecologisti, Mia moglie è stata commissario d’esame in un liceo artistico di Ravenna. Un giovane candidato ha portato una tesina sui  nuovi sistemi di agricoltura biologica di un tale giapponese che non conosco. Questo ragazzo spiegava come si mescolano i semi insieme all’argilla e si gettano in terra. Questo ragazzo, che ha sicuramente una forte sensibilità ecologica, probabilmente ricava il suo reddito (o i suoi genitori) ignorando completamente che cosa vuol dire metter su un pezzo di pane. Non si falcia il grano andando a spiluccare le sue spighe tra la gramigna, l’avena selvatica e loglio. Allora, le Apuane. C’è sempre stato, per obbligo neppure per sensibilità estetica, una cura che si rivela anche estetica nel rapporto con l’ambiente che ti dà da vivere e dunque con le Apuane da parte delle genti di Vagli che erano in gran parte fatte di cavatori. C’è una bellezza in sé in una vecchia cava, ma questa bellezza in sé viene perché è stato un lavoro ben fatto. L’idea di bellezza che io ho, l’unica idea di bellezza su cui io sono cresciuto, è quella generata per forza di cose da un lavoro ben fatto. Un lavoro ben fatto lo riconosci subito perché brutto a vedersi e poi perché non dà frutto, o non lo dà abbastanza e non lo dà nel tempo. Una potatura ben fatta di una vigna è veramente bella da vedersi; sembra un ritmo decorativo, una cosa adatta ai poeti; ma io non sono cresciuto fra i poeti, bensì fra i contadini, eppure quella bellezza c’era. Ora, quella potatura ben fatta, bella da vedersi, in realtà era buona perché dava il giusto frutto, nel giusto modo e soprattutto lo dava nel tempo: vigne che duravano perché non era possibile pensare di cambiare gli impianti ogni 5 o 10 anni. La cava doveva durare secoli perché dovevano mangiarci i figli, i figli dei figlio, i figli dei figli dei figli. E poi le cave più preziose erano quelle del bianco e il bianco doveva essere lavorato con grande attenzione e non solo, ma con un’arte straordinaria perché è raro, prezioso e soprattutto deve essere integro quando viene venduto a Rodin o a Michelangelo. Ma adesso tutto questo non c’è più. Intanto perché le cave più prezioso sono in gran parte estinte. Ma soprattutto il reddito maggiore non viene dalla cava tradizionale ma dalle nuove necessità commerciali, cioè dal carbonato dove non è necessaria nessuna cura, nessuna cautela, nessuna arte se non quella strettamente necessaria, mi auguro, almeno per non far morire gli operatori che ci lavorano.

Siliani – Infatti, il paesaggio di cui dobbiamo discutere, l’unico paesaggio possibile in Toscana, è quello artefatto dall’uomo, costruito dall’uomo. E, in questo caso anche le Apuane hanno indubbiamente questa caratteristica. Il problema è quando le esigenze industriali fanno smarrire quelle capacità, competenze, quella cura, anche quell’amore per il territorio in cui vivi, giusto?

Maggiani – Sì, è un totale disinteresse perché la multinazionale con sede, ad esempio, a Toronto non sa nemmeno cosa sono le Apuane e non ha nessun interesse a saperlo. Quello chela riguarda è il profitto e i dividendi. Per cui le Apuane equivalgono a delle cave nello stato del Rio Grande do Sol. Ora, il problema è che i poveri, i salariati sono in conflitto eterno con altri poveri e salariati che non prendono il pane da dove lo prendono loro. I seringueiros, che sono persone degnissime, si affrontano a colpi di machete con gli indigeni della zona amazzonica: non possono vivere insieme, cavare caucciù e continuare a vivere nel paleolitico come certe popolazioni desiderano e hanno diritto di vivere, nella foresta vergine. Questo è un  caso, ma ve ne sono moltissimi analoghi. I cavatori contro gli ecologisti sono la parte peggiore di un conflitto che comunque esiste. Non puoi dire ai cavatori “cercatevi un altro lavoro”; puoi dire agli ecologisti “levatevi di qui”. A meno che gli ecologisti non siano gli abitanti, gente che abita lo stesso paesaggio dei cavatori; e allora sono i fratelli contro i fratelli, i padri contro i figli, però è una cosa diversa. E la battaglia per la difesa del patrimonio paesistico comune può essere solo vinta, e secondo me vale la pena di essere combattuta, solo se è la comunità che si confronta con se stessa. Se viene un professore di Harvard a spiegarmi che io faccio male a scavare carbonato di calcio in questo meraviglioso giogo di montagne incantate, non ho grandi difficoltà a cacciarlo giù da un pozzo di cava; se invece è mio figlio o sono i bambini della  scuola del paese, è molto diverso. Penso alla TAV, che è un tema che riguarda molto la Toscana: io ho l’idea che la TAV se mai potrà succedere che non si farà, sarà perché avranno vinto gli “egoismi  locali”, non il movimento ecologista mondiale; cioè se avranno vinto le comunità locali che intendono difendere se stesse e per questo parlo di egoismo. Anzi, probabilmente l’ecologista mondiale così malamente rappresentato in certe occasioni, non dà un contributo particolarmente positivo, mi sembra. Allora, la difesa del territorio, del paesaggio, ivi compresa la bellezza del paesaggio se essa è – come io penso – una cosa ben fatta, il frutto di un buon lavoro: gli “egoismi locali” possono discutere quando anche gli interessi all’interno della comunità sono diversi. Mi chiedo quanto questo accada. In questo momento ti parlo da un posto, dove ormai vivo da tempo, sulle colline della campagna romagnola e intorno a me  vedo migliaia di ettari di paesaggio che mi commuovono, ed è tutto paesaggio lavorato. Qui la gente vive di quello, di agricoltura. Lo stesso studente di mia moglie si scagliava contro gli anticrittogamici, lamentava che non ci sono più le rane, ecc.: certo, è vero, ma vorrei prenderlo per le orecchie e portarlo qui dove non si dorme di notte per il gracidare delle rane. Non è più come nel 1950 e non si danno più gli anticrittogamici che uccidono le rane. Le cose  sono cambiate perché ha vinto una battaglia l’egoismo locale che rappresenta il lavoro  ben fatto che quindi considera che anche le rane hanno un loro posto.

Siliani – il paesaggio toscano è veramente soltanto il paesaggio “ben fatto”, o quando non lo è, è “mal fatto”, ma comunque è “fatto”. Non esiste niente di naturale, nel senso assoluto, vergine.

Maggiani – Certo. Un’operazione simile a quella del carbonato, ad esempio, si sta consumando nelle Cinque Terre. Esse sono esclusivamente frutto dell’intervento umano, altrimenti sarebbero solo un pezzo di 15 chilometri di falesia in un complesso che si sviluppa fra la Liguria e un pezzo di Francia. Le falesie sono belle, però non solo le Cinque Terre, che non sono altro che l’incredibile secolare lavoro per ricavare dalla falesia – che è il posto più ingrato possibile – terreno agricolo e terrazzamenti. Cosa è successo? Da 20 anni le Cinque Terre vivono dello sfruttamento turistico di massa di quel panorama. E quel panorama si sta sfaldando pezzo per pezzo; viene consumato da 2/4 milioni di presenze annue. Gli abitanti delle Cinque terre sono diventati tutti improvvisamente ricchi, anche perché lavorano esentasse. Ma saranno ricchi loro e i loro figli; i ricchi si mangeranno la ricchezza accumulata dai padri e poi non ci sarà più niente. Secondo me non è un tema diverso da quello delle Apuane. Bisogna capire oggi cosa rimarrà fra 30 anni delle Apuane.

Intervista con Anna Marson.

unnamedDopo l’adozione del Piano paesaggistico e l’approvazione da parte del Consiglio regionale dell’integrazione al Pit per il Parco agricolo della Piana e l’adeguamento dell’aeroporto di Peretola – due tasselli fondamentali delle politiche per il governo del territorio – il Tirreno, a firma Mario Lancisi, ha intervistato l’assessore Anna Marson. Ne è uscito un bilancio “pungente” di quanto fatto dal 2010 e di quanto resta da fare. Con qualche sassolino tirato fuori dalle scarpe.
Qui sotto l’intervista:
FIRENZE – Per molti è il fiore all’occhiello della giunta regionale di Enrico Rossi, per altri la sua spina. Lei, Anna Marson, l’assessora anti-cemento, 57 anni, veneta ma da 14 anni trapiantata in Toscana, non si scompone e dopo l’approvazione del Pit ha accettato di raccontare al Tirreno i suoi progetti per il futuro e anche le amarezze per le critiche ricevute.
Partiamo dal Pit, appena approvato. C’è il rischio che la pista di Peretola in sede di VIA (Valutazione di impatto ambinetale, ndr) nazionale da 2mila venga aumentata a 2400 metri?
«Le forze in campo potrebbero, come avviene purtroppo spesso nel nostro Paese, cambiare le regole del gioco a partita già iniziata. Sarebbe un grave strappo nei rapporti tra Stato e Regione per quanto riguarda le competenze concorrenti in materia di governo del territorio. Anche se purtroppo siamo in un tempo dai tanti strappi».
La vendita delle quote pubbliche da parte della Regione ha indebolito il Pit?
«Se almeno per quanto riguarda la società aereoportuale di Pisa i soci a maggioranza fossero rimasti pubblici il rispetto del Pit sarebbe stato maggiormente garantito».
Si torna a parlare anche dei terreni dell’ex Fondiaria. Il Pit cosa prevede?
«Che gli 80 ettari di parco pubblico previsti nel piano di Castello siano confermati e messi in connessione con gli oltre 7mila ettari di aree agricole e ambientali del parco agricolo della piana. Queste aree nel loro insieme, collocate all’interno della principale area insediativa della Toscana, costituiscono una straordinaria occasione per qualificare le molte periferie che oggi vi si affacciano».
Sì, ma Della Valle potrà farci la Cittadella viola, per capirci? 
«Gli 80 ettari dove qualcuno aveva ipotizzato di farla sorgere restano destinati a Parco. Anche le cosiddette funzioni accessorie di cui oggi si parla o vanno a sostituire altri volumi già previsti dal piano o lì è impossibile».
Come ha trovato la Toscana quando è diventata assessore. 
«Una Toscana ancora bella, con paesaggi tuttora straordinari e con un senso dell’azione collettiva ancora abbastanza radicato. Ma anche con molte edificazioni contemporanee di bassa qualità e avulse dal contesto che hanno contribuito a offuscare l’immagine che questo territorio ha e il credito sul buon governo di cui tuttora gode».
A parte il Pit, le altre realizzazioni?
«Innanzitutto il recupero di qualità tecnica e di trasparenza rispetto alla discrezionalità politica».
A cosa si riferisce in concreto?
«Alla capacità della Regione di assicurare correttezza e qualità tecnica della pianificazione territoriale anche locale»
Cosa resta ancora da fare? 
«Entro la fine della legislatura realizzeremo la riforma della Legge di governo del territorio e approveremo il Piano paesaggistico regionale, mobilitando le Università toscane. Un piano che rende disponibili a tutti le chiavi di lettura della ricchezza dei molteplici paesaggi toscani quali risorse fondamentali per un nuovo modello di sviluppo durevole».
Che cosa l’ha ferita in questi anni?
«Ho purtroppo toccato con mano più volte il potere di chi si coalizza per l’impiego di finanziamenti pubblici e delle altre leve dell’azione pubblica a favore di interessi più o meno particolari, anziché generali, così come la difficoltà di azioni regolatrici nei confronti di chi sfrutta indebitamente i beni comuni».
A quali lobbies si riferisce?
«Lobbies composite che perseguono idee di sviluppo arretrate. Non mi sarei aspettata che questi interessi si traducessero in campagne denigratorie con attacchi anche personali nei miei confronti, a fronte di azioni sempre condivise dal governo regionale».
Esempi? 
«Dai fautori di un grande aeroporto a Firenze “senza se e senza ma” agli attacchi delle imprese di cava con pagine di giornali comprate in cui sono stata attaccata con nome e cognome. Attacchi odiosi che in altre regioni mi avrebbero costretto a girare con le guardie del corpo. Qui spero non ancora».
Altri attacchi che l’hanno più ferita?
«Mi anche turbato il silenzio della televisione pubblica sulle politiche del mio assessorato, politiche peraltro di interesse rilevante per tutti i cittadini, ancor più a fronte degli ampi spazi comunicativi concessi ad altri assessori regionali su questioni di assai minor interesse pubblico. Il Tg3 regionale ha deciso di oscurarmi».
L’accusano di ideologismo ambientale.
«Di sicuro qualcuno avrebbe preferito avessi svolto il mio ruolo in modo più ornamentale, comunicando che tutto andava per il meglio senza preoccuparmi troppo di cambiare lo stato delle cose».
Nomi?
«Non si tratta di persone, ma della amara constatazione, nella mia esperienza di questi anni, che molte scelte politiche si formano e consolidano in luoghi, tempi e modalità extraistituzionali».
Nel 2015 che farà?
«Mi piacerebbe continuare il lavoro iniziato in Regione, ma solo a condizioni di poter portare avanti azioni significative per il buon governo del territorio regionale».