Fiesole: la storia incredibile continua

fiesole-piazzaPer essere giovani non basta avere 30 anni!

Lettera aperta (con immagini) al “giovane” candidato sindaco di Fiesole del Partito Democratico. Di Paolo Della Bella.

Gentile Andrea Cammelli,

leggo sul suo sito che era in terza media quando cadeva il muro di Berlino, che ha votato per la prima volta nel 1994 e che è cresciuto nell’Italia di questo ventennio. Facendo due calcoli si desume che nel 2004 lei avesse, più o meno, ventotto anni. Dico questo perché mi pare fosse abbastanza adulto da vedere invece i “muri” eretti a Fiesole. Inoltre, è sempre lei che scrive, nel 2007 contribuisce a fondare il Partito Democratico (quello fiesolano naturalmente!), e nel 2009 è eletto Consigliere Comunale. Confesso, sicuramente per colpa mia che sono vecchio e distratto, di non essermi mai accorto della sua esistenza; oggi invece nell’apprendere che lei “crede” di non avere colpe dei ricordati muri, implicando, di fatto, i suoi “vecchi” sostenitori, mi chiedo: dov’era in quel periodo? Forse, come molti altri suoi simili, aveva metaforicamente parlando la testa sotto la sabbia!

Come le dicevo sono abbastanza vecchio e a differenza di lei non ricordo quando ho votato la prima volta; ho visto il muro di Berlino da entrambe i lati e ho vissuto, “a testa alta”, anche l’ultimo decennio fiesolano. Tant’è che mi sono preso, sempre metaforicamente parlando solo “sberle”. Questo perché ho osato esprimere il mio dissenso per quei “muri” di cui sopra.

Quando fu abbattuto il muro di Berlino, io a differenza di lei ero adulto e… felice. Quando sono stati eretti i “muri” fiesolani ero un po’ più adulto e meno felice.

Fuor di metafora le vorrei chiedere se ricorda quando il “Comitato per Fiesole” denunciava gli scempi che si compivano in nome della modernizzazione? Un opuscolo e un grande convegno proprio su questi problemi sono datati 2007, l’anno in cui lei “contribuisce a fondare il Partito Democratico”. Si ricorda o aveva ancora la testa sotto la sabbia? Potevamo allora “cambiare direzione” e non ritrovarci a dover subire scelte scellerate. Oggi è sotto gli occhi di tutti che (coloro) avevano ragione! Vediamo allora perché avevano ragione.

La invito a fare una breve passeggiata esemplificativa, altrimenti per osservare tutti i misfatti del territorio fiesolano rischio, sempre per la mia avanzata età, uno scompenso cardiaco!

Partiamo da piazza Mino. Una piazza assurda, improvvisata, finta, come le copie di città che fanno i giapponesi. Una piazza senza personalità, con un una “cantina”, perché quella che oggi è definita la “sala del Basolato” è poco più che una cantina, con tanto d’infiltrazioni e umidità. C’è costata non so bene quanti milioni di euro, e non può essere utilizzata per quello per cui è nata. Spero di essere smentito ma sembra che non ci sia l’agibilità per farci il tanto decantato Front Office. Se fosse vero, sarebbe da denuncia penale per chi l’ha fatta e per chi l’ha autorizzata. Legga cosa mi scriveva il suo Sindaco in proposito:

«Gli spazi che saranno ricavati sotto il terrazzamento del Comune non sono Ufficetti: serviranno ad accogliere funzioni pubbliche e museali, ad accogliere cittadini, ad offrire servizi, iniziative culturali e a dare un significato diverso a Piazza Mino. Inoltre serviranno ad accedere direttamente in Comune con l’abbattimento di tutte le barriere architettoniche e ad offrire un nuovo ingresso al Municipio [•••] occorre uno spazio dove ricevere i cittadini, fornire ogni pratica, servizio ed opportunità».

Per fare questi assurdi e costosissimi lavori, si è perso irrimediabilmente, causa un inutile ascensore e delle inservibili scale, spazi bellissimi sulla piazza, a livello della strada e dov’era assai facile fare l’accesso per i disabili.

Gli evidenziati sono gli spazi persi.

Andiamo avanti, verso piazza Garibaldi. Stendiamo un velo pietoso. Abbiamo svenduto a un privato «Alberto Aleotti l’evasore d’oro del Lichtenstein», come titolavano i giornali nel 2010, per fargli fare un certo numero di appartamenti. Quali vantaggi ne avrà la cittadinanza? E il tanto decantato turismo? A quali viaggiatori pensa quando auspica che facciano meta nella nostra città? A quei perversi che sghignazzeranno davanti alle case dell’evasore!

Dov’era quando si compiva il misfatto. Sempre con la testa sotto la sabbia?

In questi casi, perdoni la malignità, mi viene in mente l’inflazionata citazione andreottiana, «a pensare male si fa peccato ecc. ecc…..»!!!

E non è finita, Questo è un articolo recente, come può vedere!!!

Sempre dalla lettera citata sopra, le propongo un altro brano:

«[…] Fu così firmata la Convenzione del 2004, col Cav. Aleotti di Menarini, per un Piano di recupero che prevede: 7.500 metri cubi per realizzare un Fondazione di studi e ricerca scientifico/farmaceutica. 2.500 metri cubi pubblici con i quali il Comune si allargherà e concentrerà in un unico Municipio tutte le sue funzioni. [•••] La parte centrale dell’area Garibaldi sarà mantenuta a verde e diverrà un parco pubblico dove saranno visibili anche i ritrovamenti archeologici. Il vecchio cisternone del Carraresi sarà recuperato per la nuova Sala consiliare e un Centro Incontri».

Lei ne era a conoscenza? Oppure sono, come molte delle cose dette e scritte dal suo Sindaco, “sciocchezze”. Uso volutamente questo termine mutuato proprio da una sua definizione nei confronti dei dissidenti.

 

Andiamo in piazza del mercato e “visitiamo” l’Auditorium. Questo sì pietra dello scandalo. Le ultime notizie dicono che ci piove, ma non vorrei essere banale chiosando, “governo ladro”!

Un sindaco, sempre il suo Sindaco, l’ha avviato e dopo due mandati non riesce a inaugurarlo. Sono dieci anni da quando sono iniziati i lavori, lei era giovane, non aveva ancora contribuito a fondare il Partito Democratico, e ancora non se ne vede la fine. A essere cattivi potremmo dire che probabilmente finisce prima il Partito Democratico. Non le pare un tempo inammissibile, soprattutto se pensiamo a un’opera più ambiziosa che utile. Tanto per fare un esempio, che penso anche lei abbia studiato in terza media, la costruzione del Colosseo fu iniziata da Vespasiano nel 72 dC. e fu inaugurato da Tito nell’80, sempre dC. ovvero otto anni dopo.

E pensare che nell’introduzione all’opuscolo Opere a Fiesole del giugno 2004, il Sindaco uscente e quello entrante, scrivevano:

«Avere un Auditorium è dunque una necessità irrinunciabile per la città [•••] Finalmente diamo il via ai lavori e fra due anni Fiesole avrà il suo Auditorium»

Come sempre succede, i tempi previsti slittano per qualche intoppo inevitabile, ma potevamo sperare di inaugurarlo almeno quando lei contribuiva a fondare il Partito Democratico, cioè nel 2007. Sarebbe stato un bell’ambo!

Ecco com’era piazza del mercato negli anni ’90.

Ecco invece una foto del novembre del 2013.

Lei sa quant’è costato alla comunità questo inutile e oggi arrugginito oggetto che a questo punto dobbiamo riconvertire quindi spendere altri soldi, se vogliamo farci qualcosa di decente? Chissà perché, di nuovo, mi ritornano in mente la sua adolescenza e il muro di Berlino!

Arriviamo all’area ex macelli. Come dire al peggio non c’è mai fine. Uno spazio con una potenzialità straordinaria per la sua ubicazione. Sotto ci sarebbero stati i parcheggi che avrebbero risolto il problema a Fiesole; bastavano un po’ più di saggezza e di buonsenso! Anche in questo caso è stato venduto un bene pubblico a una società privata, per edificarci case ancora oggi quasi tutte invendute (Chi compra delle case così brutte, così care, 6.500 euro al mq, e per giunta con i bagni senza finestra!). Davvero un oltraggio al pudore. Nel 2006, quando lei aveva 30 anni e si accingeva a contribuire alla fondazione del Partito Democratico, l’assessore all’Urbanistica più mediocre della storia, in una delle tante assurdità che ha scritto, oltre a sostenere il falso ovvero che l’area ex macelli «era da decenni in stato di sostanziale abbandono», asseriva che fosse «di importanza strategica per la ridefinizione dell’assetto urbanistico del capoluogo». (sic!)

Guardi bene questa foto, è del 2005. Le pare una zona così “degradata”?

Invece questo obbrobrio sarebbe “d’importanza strategica per la ridefinizione dell’assetto urbanistico del capoluogo”!!!

Appare chiaro che, strategica o no, quest’area doveva essere usata in un modo più appropriato e francamente, gli esempi e i consigli, volutamente non accolti, non sono certo mancati.

Mi deve scusare se mi ripeto, purtroppo è l’età, ma anche in questo caso mi vengono alla mente la sua adolescenza e il muro di Berlino!

Finita la passeggiata, torniamo indietro? Torniamo pure al titolo, per replicare che non basta avere 30 anni (e nemmeno 38) per essere giovani.

Ci vuole del tempo come diceva Picasso, e col tempo voglio pensare che ci riuscirà anche lei.

Oggi la sua idea di politica è ancora vecchia, legata a schemi e personaggi ormai logori. È la forma “Partito” che non regge più. Specialmente nelle amministrazioni locali, c’è bisogno di persone libere da vincoli e “obblighi” ai quali dover rendere conto e non di “utili idioti”, per usare una definizione tornata oggi agli onori della cronaca. Persone che a un certo punto della loro esperienza di vita, anche politica, si accorgono con entusiasmo di stare diventando “giovani”! Perché, come cantava Jacques Brel, «…ci vuole del talento / ad esser vecchi e non adulti».

Cordiali saluti

Paolo della Bella

 

Regole per il buon governo.

carta_suoli toscana 1 250KLa riforma della legge regionale sul governo del territorio, Convegno organizzato dalla Regione Toscana, Firenze, 20 novembre 2013.

Il convegno è stato organizzato per esporre e discutere i contenuti della proposta di legge  recentemente approvata dalla giunta regionale e sottoposta al voto del Consiglio, dopo gli interventi del Presidente della Regione, Enrico Rossi, e dell’assessore all’urbanistica Anna Marson sono intervenuti nelle diverse sessioni:  Marco Cammelli, Alberto Chellini, Edoardo Salzano, Salvatore Lo Balbo, Gampiero Maracchi, Vezio De Lucia, Giovanni Caudo, Gianfranco Venturi, Paolo Maddalena, Raffaele Potenza, Massimo Morisi, Raffaella Mariani.  Dopo i numerosi interventi nelle varie sessioni  ha concluso Anna Marson .

Ecco gli interventi di Vezio De Lucia e di Edoardo Salzano, nonché quello di Salvatore Lo Balbo, segretario nazionale della Fillea CGIL  (da Eddyburg).

VEZIO DE LUCIA, Procedure di pianificazione ed efficacia dell’azione di governo.

0. Voglio dirlo subito, senza problemi. Sono convinto che siamo di fronte a una svolta storica: a 50 anni dalla drammatica sconfessione di Fiorentino Sullo e a 35 anni dall’illusione della legge Bucalossi, la Toscana riprende l’iniziativa della riforma, e stavolta ci sono le condizioni per cogliere l’obiettivo.

1. L’innovazione fondamentale della proposta di riforma urbanistica che stiamo discutendo risiede nel procedimento pianificatorio volto a porre un freno al consumo del suolo. A tal fine è prevista, com’è noto, la rigorosa perimetrazione del territorio urbanizzato. In breve, ogni comune provvede a dividere in due parti il proprio territorio: quella urbanizzata e quella rurale. All’interno del territorio urbanizzato deve essere concentrato ogni intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica. All’esterno, non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali. Sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di ambiti di area vasta [(art. 4 c. 6), ovvero ambiti sovracomunali (art. 27)], cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti.

Finisce così, ha dichiarato il presidente Rossi, la stagione degli ecomostri e delle villette a schiera. Una dichiarazione da non dimenticare.

Il pregio della proposta toscana si coglie appieno confrontandola con le proposte di legge per il contenimento del consumo di suolo che sono finora 13 (8 alla Camera e 5 al Senato), presentate da quasi tutte le forze politiche e dal governo. I dispositivi previsti sono in genere molto complicati, certe volte bizzarri, o addirittura controproducenti.

2. A questa prima e prioritaria innovazione è strettamente connessa quella che riguarda il superamento del cosiddetto pluralismo istituzionale paritario, cioè la presunzione di assoluta equivalenza fra la Regione e gli altri poteri locali, stoltamente perseguita dalla Toscana negli anni passati. Una concezione esasperata e perversa dell’autonomia istituzionale, figlia delle modifiche alla Costituzione del 2001, con il solo e inutile intento di captatio benevolentiae nei confronti di Bossi, dei leghisti e della mitologia federalista allora dilagante, e senza uno straccio di valutazione critica. In Toscana, in conseguenza del pluralismo istituzionale paritario, è stato di fatto impedito alla Regione di operare interventi sulle proposte di trasformazione del territorio decise dai Comuni, anche se in contrasto con gli strumenti di pianificazione disposti dalla stessa Regione.

Nella nuova legge, per superare il malinteso pluralismo paritario, i provvedimenti adottati sono:

In primo luogo, la già citata conferenza di copianificazione (art. 24) d’area vasta [o sovracomunale] cui spetta di decidere intorno all’impegno di suolo all’esterno del territorio non urbanizzato. Alla conferenza partecipano la Regione, la Provincia, il Comune proponente e gli altri comuni ricadenti negli ambiti sovraccomunali che saranno individuati dal Consiglio regionale;

In secondo luogo, il rafforzamento dei poteri della conferenza paritetica interistituzionale (artt. 45 sgg.), organo destinato a comporre i conflitti tra i soggetti che operano in materia di governo del territorio. La conferenza era già prevista dalla precedente legge 1/2005 ma, incredibilmente, proprio in ragione della presunta assoluta parità fra i livelli istituzionali, non aveva il potere di rendere cogenti le decisioni assunte. La rinnovata conferenza interistituzionale è invece dotata dei poteri necessari ad assicurare il recepimento delle proprie conclusioni. E il parere negativo della Regione è vincolante.

3. Altre importanti innovazioni della riforma urbanistica toscana, che è impossibile approfondire in quest’occasione, sono:

– la riorganizzazione delle procedure e delle regole relative all’informazione e alla partecipazione (rafforzando i poteri d’intervento regionali);

-l’istituzione del monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e della sua efficacia;

–  l’introduzione del suggestivo concetto di «patrimonio territoriale»;

–  l’immissione delle politiche abitative fra i contenuti della pianificazione urbanistica;

– il rafforzamento delle regole di prevenzione e mitigazione dei rischi sismici e idrogeologici;

– la valorizzazione dell’attività agricola e del mondo rurale;

– la correzione del lessico (il «regolamento urbanistico» diventa più correttamente «piano operativo»);

– la riduzione dei tempi della pianificazione (gli attuali 6 anni in media per i piani comunali dovrebbero ridursi a 2);

-l’adeguamento della legislazione regionale al Codice del paesaggio;

– la collocazione nel loro spazio fisiologico di strumenti come la compensazione, la perequazione, gli accordi di programma, che in altre Regioni determinano conseguenze efferate.

È una lista che prefigura una qualità senza confronti dell’azione regionale.

Qui apro una parentesi ricordando che nel Lazio, Regione pure governata, dal marzo scorso, da un’amministrazione di centrosinistra, la politica urbanistica continua a essere incentrata sul famigerato «piano casa» ereditato dalla precedente giunta Polverini. Un provvedimento al quale si cerca, assai stentatamente, di apportare modifiche migliorative, che continua però a essere caratterizzato dalle deroghe agli strumenti urbanistici, deroghe tanto pervicacemente diffuse da configurare un vero e proprio ordinamento alternativo a quello della pianificazione ordinaria. [Qualunque precedente destinazione può essere trasformata in alloggi: come nel caso, in Comune di Roma, dell’ex Consorzio Agrario al quartiere Marconi (che oggi ospita la Città del Gusto e un cinema multisala) e dell’ex fabbrica Buffetti alla Magliana (un quartiere mostruoso dove si raggiungono densità di mille abitanti/ettaro)].

4. Torno alla proposta di cui discutiamo affrontando un argomento che, secondo me, merita di essere approfondito, quello della pianificazione territoriale di livello intermedio, fra Regione e Comuni. Cominciando del piano territoriale di coordinamento di competenza provinciale, uno strumento tra l’altro in Toscana mai amato (la legge 142/1990 che lo istituisce fu anche oggetto di ricorso della Regione alla Corte costituzionale), privo di effettiva cogenza, una sorta di piano paesistico attenuato (con elementi del piano di bacino), nella migliore delle ipotesi un repertorio di buone intenzioni. Mi pare che la discussione sulla proposta di riforma urbanistica non possa ignorare questo nodo, anche se l’incertezza circa il destino delle Province – intorno al quale si susseguono confuse proposte governative – probabilmente non consente soluzioni definitive.

Comunque, un ragionevole punto di partenza per avviare una riflessione potrebbe essere quello degli ambiti di area vasta (art.4, c. 6; art. 27) per ora un mero e generico riferimento territoriale (indispensabile per decidere in ordine alle eventuali edificazioni nello spazio aperto). In effetti, la proposta di riforma urbanistica non ne definisce in alcun modo né la natura né le dimensioni né altro, limitandosi a fissare per la loro individuazione la scadenza di 180 giorni dall’approvazione della legge. Un po’ poco per una questione di grandissima importanza ai fini del buongoverno del territorio.

Vale la pena allora di chiedersi se non sia conveniente cogliere quest’occasione per attribuire agli ambiti di area vasta anche una qualità istituzionale, riconoscendo cioè a essi la titolarità di poteri pianificatori, trasformandoli insomma in attori della pianificazione intercomunale (artt. 22 sgg.). Almeno in via sperimentale. In tal modo contribuendo, tra l’altro, al superamento del piano strutturale comunale che troppo spesso appare inadeguato (comuni conurbati, di ridotta superficie territoriale, con problemi di infrastrutturazione irrisolvibili a scala locale).

5.  Anche Anna Marson ha rivendicato il legame della sua proposta di riforma con i principi che animarono le riforme e i tentativi di riforma dei primi anni Sessanta [il concetto di patrimonio territoriale sostituisce gli elenchi di beni culturali e aree protette, così come la nozione di centro storico sostituì l’individuazione dei singoli edifici di valore monumentale].

La filosofia riformatrice rivendicata dall’assessore Marson mi pare ottimamente espressa da alcuniparagrafi della relazione:

«La crisi economica, e più nello specifico la crisi finanziaria degli enti locali e la riduzione dei posti di lavoro e delle retribuzioni, comporta oggi il rischio di un «prevalere» delle scelte di investimento, di qualunque natura esse siano, rispetto a una valutazione ponderata dei pro e contro le diverse ipotesi di trasformazione e messa in valore dei territori in un’ottica di sostenibilità di lungo periodo e di prospettiva territoriale più ampia. Questa situazione espone i territori locali all’elevata volatilità degli investimenti, con il conseguente rischio del mancato prodursi di effetti positivi sull’economia reale, e al prodursi di crisi più profonde e ricorrenti.

«A fronte di tale scenario l’esercizio del potere decisionale da parte di un solo attore istituzionale, espone al rischio della «cattura del regolatore», ovvero della subordinazione di chi è tenuto a rappresentare gli interessi collettivi a interessi di parte. La cosiddetta «filiera della pianificazione» è stata dunque resa più trasparente e coerente, affinché soggetti istituzionali, cittadini e attori economici possano partecipare, ognuno per le proprie funzioni, alla costruzione e gestione di decisioni nelle quali rappresentanza formale e rappresentanza sostanziale degli interessi collettivi coincidano il più possibile».

Che io sappia, è la prima volta che un provvedimento di legge dichiaratamente si sottrae al «ricatto della congiuntura», il machiavello che da mezzo secolo si utilizza per dirottare su un binario morto qualsivoglia proposta davvero innovativa. Il pretesto è che in tempo di crisi economica (ma è sempre tempo di crisi) non è possibile mettere mano ad autentiche riforme]. E con chiarezza denuncia il rischio di opacità che si corre quando a decidere è un solo soggetto (la cattura del regolatore).

Meglio di così mi pare impossibile.

EDOARDO SALZANO, Perché e come contrastare il consumo di suolo.

Il tempo che è stato concesso ai nostri interventi mi obbliga a essere sintetico, perciò in buona parte apodittico. Spero che questo non nuoccia alla chiarezza.

Il suolo è un bene prezioso, oggetto di utilizzazioni molteplici

Perché è necessario contrastare il consumo di suolo? Credo che in primo luogo occorra assumere piene consapevolezza del fatto che il suolo è un bene prezioso per ciò che esso è, per le sue caratteristiche proprie:

– è la pelle del pianeta, il substrato delle comunità biologiche, l’infrastruttura materiale della vita,

– è il palinsesto della storia delle civiltà umane,

– è l’habitat della società umana, il suo sistema insediativo

Da queste sue caratteristiche discendono le molteplici potenziali utilizzazioni del suolo per la razza umana:

– il ciclo della biosfera,

– il deposito di risorse naturali utili all’uomo

– la produzione degli alimenti,

– l’habitat dell’uomo,

– la testimonianza e l’insegnamento della storia delle civiltà

Le trasformazioni della civiltà umana hanno prodotto, soprattutto negli ultimi secoli, un pesante processo di trasformazione che ha privilegiato, rispetto alle altre utilizzazione, quella finalizzata all’uso del suolo come habitat dell’uomo nella forma dell’urbanizzazione: abbiamo inventato e progressivamente esteso la città, che è divenuta al tempo stesso gloria e dannazione della civiltà umana.

Oggi constatiamo che il suolo si sta gradatamente ma velocemente trasformando in quella che Antonio Cederna definiva la “repellente crosta di cemento e asfalto” .

Il ruolo della rendita

Decisivo in questo mortifero processo sono stati due elementi:

– la mancata consapevolezza di consapevolezza del valore del suolo comebene (come patrimonio da gestire con parsimonia), e non come merce

– il ruolo che ha via via assunto la rendita urbana: più precisamente, la sua appropriazione privata

La potenzialità economica della rendita nell’economia capitalistica borghese, e soprattutto in quella post-borghese, ha escluso, ed esclude via via più decisamente, gradualmente le altre possibili utilizzazioni (oltre a cancellare quella che io definisco la “città dei cittadini”: quella cioè finalizzata al ben-essere e ben-vivere dei suoi abitanti)

Come contrastare

Per contrastare il consumo di suolo dobbiamo tener conto che esso ha molte forme

– il land grabbing, cioè l’accaparramento dei terreni e del loro uso da parte di poteri esterni alle comunità locali

– l’asservimento della produzione agricola al ciclo energivoro dell’economia opulenta, mediante la produzione esclusiva di biomasse

– la distruzione materiale della naturalità, della bellezza e della storia mediante, cioè la sostituzione della pelle del pianeta con la “repellente crosta di cemento e asfalto”.

E’ su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi, tenendo conto che non è l’unico, che tutti vanno combattuti e che solo una visione complessiva può consentire il formarsi le alleanze necessarie per vincere.

Il punto di svolta

Mi pongo una prima domanda: Quando il consumo di suolo è diventato un problema, un aspetto rilevante dei processi di degrado dell’ecosistema planetario che già la cultura ecologista aveva denunciato?

Il punto di svolta è stato rappresentato dagli orribili anni 80, le cui prime radici si sono potute vedere in Italia nelle “controriforme” del decennio precedente.

Ecco le cinque parole chiave del degrado:

1. La “perequazione”, intesa e praticata come spalmatura dell’edificabilità

2. l’invenzione dei “diritti edificatori”, termine fino ad allora completamente estraneo sia al linguaggio corrente che al mondo del diritto e a, teorizzata e praticata nel PRG di Roma targato Rutelli e Veltroni

3. la “vocazione edilizia” come attributo del suolo,

4. il “trionfo della rendita urbana, magistralmente analizzata da Walter Tocci

5. l’abbandono della pianificazione, il cui emblema e stato costituito dalla la legge di Maurizio Lupi.

Il punto di svolta è stato insomma determinato dall’onda globale del neoliberismo aggravata nella sua versione italiana a causa di due elementi nostrani

– il ruolo della rendita nel nostro paese

– la debolezza della pubblica amministrazione dello stato unitario

Abbiamo capito tardi

Mi pongo una seconda domanda: perché la gravità del fenomeno è stata avvertita così tardi?

E’ una domanda che mi pongo da quando, nel 2004, abbiamo cominciato a preparare la prima edizione della Scuola di eddyburg e ci siamo accorti che cultura, politica e amministrazioni non consideravano lo sprawl un grave pericolo da combattere. Mi sono convinto che questo ritardo sia addebitabile soprattutto a 4 cause:

1. L’egemonia conquistata dall’ideologia della crescita indefinita (lo “sviluppismo”)

2. La decadenza della politica e il suo appiattimento sul giorno per giorno,

3. La distrazione della gran parte dei saperi specialistici dagli aspetti propri della pianificazione delle città e del territorio

4. Il prevalere nell’accademia della formazione di tecnici per la gestione dei processi in atto (facilitatori) anziché di intellettuali dotati di spirito critico e quindi propositori di strade alternative

Le cose sono cambiate

Oggi il “No al consumo di suolo” è diventato uno slogan di massa: il peggioramento delle condizioni materiali, i risultati del saccheggio in nome della rendita hanno suscitato reazioni estese di protesta e di puntuale proposta alternativa

Ma “No al consumo di suolo” è diventato anche una parola passepartout, come è accaduto per le parole sostenibilità, sviluppo, e perfino con la parola democrazia.

Dobbiamo porre la massima attenzione attenti ai falsi profeti, ai lupi mascherati da agnello.

Grande confusione sul “che fare”

Le commissioni parlamentari sono affollate di proposte legislative, alcune chiaramente volte a convalidare le scelte perverse che hanno causato il saccheggio del territorio, altre semplicistiche e velleitarie, altre infine mutuate da esperienze di altri paesi il cui contesto è profondamente diverso dal nostro.

La confusione non è un buon segno, perché allontana dalla buona soluzione. Eppure la situazione e gravissima ed è urgente dire “stop al consumo di territorio nella pratica.

Molto si può già fare, a tutti i livelli. Ma a tutti i livelli è in primo luogo necessario disporre di:

– una visione strategica, quindi alternativa rispetto alla miopia prevalente oggi

– un dispositivo che leghi tra loro i diversi livelli di governo: le istituzioni della Repubblica, stato, regioni, province e città metropolitane, comuni.

-l’attivazione di procedure che consentano di dare voce informata e consapevole al “popolo sovrano”, coinvolgendolo nel processo di decisione

A livello comunale

Molte esperienze di autocontenimento del consumo di suolo con gli strumenti della pianificazione urbanistica: Il Prg di Napoli del 2004 e, in Toscana il piani di Lastra a Signa e quello di Sesto fiorentino nel 2004 e 2005: ma ce ne sono certamente altri.

A livello regionale

Due parole sulla proposta di modifica della legge 1/2005 approvata dalla giunta regionale della Toscana

Un testo che mi sembra esemplare soprattutto per tre aspetti:

1. assegna priorità alla tutela e al riconoscimento del valore del patrimonio comune rispetto alle trasformazioni. Voglio sottolineare che questo “riconoscimento” postula un massiccio impiego di lavoro in tutti i settori connessi alla manutenzione del suolo

2. esprime in termini chiari le buone intenzioni confusamente espresse nella legge precedente e, soprattutto, le traduce in dispositivo efficace e tassativo

3. pone in termini corretti e produttivi l’integrazione delle competenze dei vari livelli di governo: il tema complesso ma decisivo di un’interscalarità nel processo delle decisioni che corrisponda alle differenti scale di rilevanza degli aspetti del territorio e del loro governo

E’ un testo normativo che merita di essere indicato come modello per ogni legge regionale in materia e di essere assunto (soprattutto per le sue definizioni) come matrice di una nuova legislazione nazionale

A livello nazionale

Ma è certamente necessario un intervento normativo a livello nazionale, non solo perché non tutta l’Italia è come la Toscana Lo ha ruicordato con efficacia Marco Cammelli) ma anche perché ci sono nodi che solo a livello della Repubblica possono essere risolti.

Per tutelare il territorio non urbanizzato, a livello nazionale si dovrebbe:

1.  stabilire regole valide per tutte le regioni – del centro, del nord e del sud – avvalendosi delle competenze statali in materia di paesaggio. Già lo proponemmo come amici di eddyburg nel 2005, e le nostre proposte furono riprese anche nel testo elaborato dall’on. Raffaella Mariani.

2. applicare le leggi esistenti, e procedere tempestivamente alla individuazione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione”, come prescrive il Codice del paesaggio.

3.  ribadire il principio che l’edificazione è una facoltà che appartiene alla collettività e alle sue rappresentanze democratiche ( ripartendo da Piero Bucalossi) e fare piazza pulita con le teorie e le pratiche dei “diritti edificatori” e delle connesse compensazioni e perequazioni. Tocchiamo qui il nodo del contenuto del diritto proprietario, sul quale altri parleranno con maggiore competenza e autorità

4. Ultimo ma non marginale impegno, si dovrebbe affrontare la questione della formazione di una pubblica amministrazione competente, motivata, autorevole, in assenza della quale nulla di serio e di durevole si potrà fare nel territorio. Non mancano spese da rivedere in altri settori, come quelli delle rendite immobiliari e finanziarie e della produzione di armi.

Noi e il mondo

Un’ultima considerazione. Nel contrastare o meno il consumo di suolo dobbiamo tener presente che le nostre scelte coinvolgono orizzonti più ampi.

La corsa all’urbanizzazione dei paesi del terzo mondo, promossa e incentivata dalle agenzie internazionali, avviene utilizzando i modelli offerti dal la civiltà dominante. Dobbiamo essere capaci non tanto di proporre modelli alternativi a quelli correnti, ma di fornire l’esempio di logiche e strategie rispettose dei patrimoni e delle identità locali. La legge della Toscana è un prezioso insegnamento a questo proposito. L’augurio e la speranza sono che la proposta divenga subito efficace, e che essa apra la strada a quel nuovo modello di sviluppo di cui il Presidente della Regione ha cosi calorosamente parlato.

 

SALVATORE LO BALBO, Segretario Nazionale Fillea CGIL, La Fillea-CGIL chiede: zero consumo di suolo

Grazie ad Anna Marson e al Presidente Enrico Rossi per l’opportunità che mi danno oggi di parlare a questa qualificata platea.L’iniziativa di oggi rafforza la convinzione che si continuano a fare passi in avanti verso una società e uno Stato che sia in grado di dare piena attuazione ai dettami della Costituzione, a partire dall’articolo 1, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e dall’articolo 9, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio storico e artistico della nazione”.

Negli anni sessanta del secolo scorso, era il 1966, Adriano Celentano cantava a San Remo “il ragazzo della via Cluck” e negli stessi anni, era il 1963, Francesco Rosi ci regalava il film “Mani sulla città”, Leonardo Sciascia, era il 1961, ci incantava con il libro “Il giorno della civetta”, e Tonino Guerra ci diceva che: “Il nostro petrolio è la bellezza. La bellezza ci fa pensare alto e noi la buttiamo via come se fosse danaro dentro tasche vuote”

Gli anni sessanta sono stati gli anni dove, senza bisogno di grandi approfondimenti, “a naso”, era chiaro quale sarebbe stato il futuro del nostro paese: cemento, cemento e ancora cemento. Se quattro grandi italiani cinquant’anni fa scrivevano, cantavano e ci facevano vedere il futuro, solo una forte motivazione speculativa e criminale poteva corrompere le coscienze e ingrossare i portafogli di milioni e milioni di italiani.

Ovviamente non sono i materiali a essere nemici del suolo, dell’ambiente e dell’Italia (nessuno pensa a un luddismo del terzo millennio) ma i forti interessi di pochi – palazzinari, speculatori fondiari, cattivi e famelici amministratori e burocrati, imprenditori senza scrupoli, mafiosi, ‘ndranghisti e camorristi – che hanno determinato la realtà che abbiamo di fronte ai nostri occhi.

L’ISPRA ci dice che si consumano in Italia circa 80 ettari di suolo al giorno e dagli anni ’50 ad oggi è stata cementificata una superficie equivalente a quella di una regione come la Calabria, pari a 1,5 milioni di ettari. Continuando questo trend, si prevede che tra cinquant’anni scomparirà una superficie pari a quella del Veneto.
Il nostro pensiero va ai cittadini della Sardegna. Oggi “La Repubblica” ci informa che in questa regione dagli anni ’50 al 2001 la popolazione è aumentata del +25%, il territorio urbanizzato del +1.154% e l’urbanizzazione pro-capite del +900%. La stessa cosa, anche se con percentuali leggermente diverse, succede ogni due/tre mesi in tutto il territorio italiano. E’ successo recentemente anche in Toscana.

I contenuti di questo convegno e le notizie della cronaca, mi pongono nella condizione di dire, sempre con maggiore convinzione e forza, “zero consumo di suolo”. Questa nostra convinzione, frutto di come la filiera delle costruzioni è cresciuta senza sviluppo, l’abbiamo ufficializzata assieme con il nostro Osservatorio Territorio e Aree Urbane, nel convegno nazionale che abbiamo tenuto a Torino il 22 marzo 2013, dove senza tentennamenti abbiamo sintetizzato la nostra posizione con lo slogan “La FILLEA per zero consumo di suolo”.  Se la Fillea, malgrado gli oltre 400.000 posti di lavoro persi, ha posto l’asticella della filiera delle costruzioni a un livello alto di tutela e conservazione del “Bel paese”, perché in tanti e attraverso articoli, atti, disegni di legge, etc…. continuano a giocare con le parole, sostanzialmente per dire che con una pennellata di verde, di ecologia e di sostenibilità si può continuare ad impermeabilizzare il suolo?
Essendo questo un dramma mondiale, pari al cambiamento climatico di cui il consumo di suolo è certamente una componente decisiva, e in attesa che ci sia una Kyoto anche per il consumo di suolo, il Parlamento europeo e la Commissione Europea si sono già fatti sentire fin dal 2004 con la Direttiva n. 35. Non è stata ancora varata una nuova direttiva, ma i recenti “Orientamenti della Commissione Europea in Materia di Buone Pratiche per Limitare, Mitigare e Compensare l’Impermeabilizzazione del Suolo” rappresentano un punto di riferimento chiaro e corretto al quale tutti dobbiamo agganciarci. Spero che tanti dei presenti a questa iniziativa li abbiamo letti. Questi Orientamenti sono un punto di riferimento per tutto il continente europeo e ci danno le giuste coordinate per non giocare con le parole e per assumere provvedimenti legislativi o amministrativi in grado di non continuare a impermeabilizzare il suolo, neanche se questa impermeabilizzazione viene fatta con le parole dell’ambientalismo e con gli obiettivi di una economia verde che di verde ha solo il colore dei dollari (gli euro hanno tanti colori).
Le proposte della Fillea, pertanto, partono dalla condivisione degli orientamenti e dalla chiarezza dei contenuti che abbiamo definito a Torino lo scorso 22 marzo, nel già richiamato Convegno nazionale, e cioè:

  1. Consumo di suolo: è l’attività umana che “separa il suolo dall’atmosfera, impedendo l’infiltrazione della pioggia e lo scambio di gas tra suolo e aria”.
  2. Impermeabilizzazione del suolo: è la “costante copertura di un’area di terreno e del suolo con materiali impermeabili artificiali”.
  3. “limitazione del consumo di suolo”: vuol dire “impedire la conversione di aree verdi” (o naturali) “e la conseguente impermeabilizzazione del loro stato superficiale o di parte di esso.
  4. “mitigazione del consumo di suolo”: vuol dire che “Laddove si è verificata un’impermeabilizzazione sono”… “adottate misure”… “ tese a mantenere alcune delle funzioni del suolo e a ridurre gli effetti negativi diretti o indiretti significativi sull’ambiente e sil benessere umano”.
  5. “compensazione del consumo di suolo”: vuol dire che “Qualora le misure di mitigazione adottate in loco siano state ritenute insufficienti”, si passa “facendo altro altrove”. Il termine “compensazione” può essere fuorviante: non significa che l’impermeabilizzazione può essere compensata o monetizzata. Inoltre “Le misure di compensazione sono progettate per recuperare o migliorare le funzioni del suolo evitando gli impatti deleteri dell’impermeabilizzazione”.

Il confronto di queste definizioni, presenti negli Orientamenti della Commissione Europea, con il contenuto dei tanti disegni di legge presentati in Parlamento, rafforza la nostra convinzione che corriamo il rischio di una nuova colata di cemento e di un ingrossarsi dei portafogli di speculatori e mafiosi. Ovviamente il tutto condito come ha scritto Salvatore Settis il 1° giugno u.s. su “La Repubblica”: “La strana alleanza in salsa verde”.

A queste cinque azioni né aggiungo una sesta: la decementificazione . In essa si identifica la volontà di chi amministra per togliere il cemento da dove non doveva essere posto dai precedenti amministratori.
Detto ciò, la Fillea ritiene che esistano due livelli di azione: una da sviluppare sul territorio e l’altra da sviluppare nazionalmente. La prima, nelle mani degli amministratori del territorio, e la seconda, nelle mani dei parlamentari e del governo. Chiaramente, in entrambi i livelli, un ruolo importante è svolto dai cittadini, dalle associazioni, dal sindacato, dai partiti, etc…

Non esiste solo il livello nazionale, sarebbe un grave errore pensarlo. Gli articoli 9, 41, 44, e 137 della Costituzione ci danno il perimetro entro il quale i soggetti del governo e della gestione del territorio si devono muovere. Al parlamento spetta il compito di salvaguardare il “Bel Paese” e alle istituzioni locali spetta il compito di far convivere il “Bel Paese” con le necessità economiche, civili e di convivenza dei cittadini.

Pertanto, anche senza una legge nazionale sulla riduzione o azzeramento del consumo di suolo, gli amministratori locali possono assumere decisioni per limitare, mitigare e compensare il consumo di suolo. Basta fare le opportune scelte politiche e amministrative. Per questo ritengo che sia importante il fermento culturale e amministrativo sulla riduzione del consumo di suolo che sta attraversando gran parte delle regioni e dei comuni, e prima tra tutte la regione Toscana.
Noi ci aspettiamo che i prossimi giorni servano a diradare le tante nebbie ancora presenti sull’argomento. Chi può decidere senza una legge nazionale lo faccia senza aspettarla, chi deve fare una legge nazionale la faccia per la riduzione del consumo del suolo e non per salvaguardare interessi “presumibilmente” eterni o per proteggere, direttamente o indirettamente, gli interessi dei personaggi di Sciascia o Rosi.

Evitiamo di prestare tanta attenzione ai diritti di edificazione (ma perché sono eterni o non annullabili?) e poniamo l’attenzione sulla creazione di spazi non impermeabilizzabili, per avere la certezza che gli interessi saranno riversati sull’impermeabilizzato.Bisogna vietare l’impermeabilizzazione per rigenerare i quartieri e i comuni e per ricostruire e valorizzare i luoghi già edificati.

Questa nuova edilizia richiede lavoratori, tecnici e imprese che abbiamo professionalità e competenze oggi poco presenti sul mercato. Per questo pensiamo che un ruolo possa e debba essere svolto dalla contrattazione sindacale, dalla bilateralità e dalla formazione.

Le imprese che finalizzano il proprio interesse nell’avere “lavoretti” semplici, con lavoratori poco qualificati e professionalizzati, con conoscenzesufficienti a realizzare una soletta a cottimo, non hanno un futuro e spesso sono strumenti di illegalità anche mafiosa.

La Fillea ritiene che ancora qualche milione d’italiani possano e debbano continuare a vedere la filiera delle costruzioni come uno dei settori primari dell’economia italiana. Muratori, carpentieri, piastrellisti, installatori, lavoratori del cemento, lapidei, cavatori, geometri, ingegneri, architetti, restauratori hanno ancora un futuro nelle costruzioni. Questa volta non per distruggere il “Bel paese”, ma per valorizzarne la bellezza.

La Riforma della Legge Toscana

mosaic_castorein materia di Governo del Territorio. Un passo oltre la contrapposizione,

di SIMONE RUSCI, in EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013.

Il recente articolo di Ferdinando Semboloni, pubblicato sul numero 3 (Vol.3, Maggio 2013) di EyesReg, affronta in maniera molto opportuna uno dei temi destinati ad incidere fortemente sulla pianificazione della Regione Toscana con prevedibili conseguenze anche sul dibattito nazionale: la riforma della Legge Regionale 1/2005 sul Governo del Territorio, recentemente proposta dall’Assessore Anna Marson. Un disegno di legge che, pur essendo ancora in una fase di definizione e modifica, ha visto fin da subito il netto contrapporsi tra Regione e Associazione dei Comuni, in particolar modo sui temi del controllo sugli strumenti operativi comunali e sulla reintroduzione di un sistema istituzionale-amministrativo accusato di essere eccessivamente piramidale (Semboloni, 2013).

Le preoccupazioni dei Comuni, seppur legittime, rischiano però di sviare l’attenzione dei media e degli amministratori stessi dai contenuti di natura culturale e tecnica introdotti e modificati dalla proposta di legge, ponendo al contrario maggiore attenzione sugli aspetti organizzativi e procedurali. Ferma restando l’impostazione originaria della legge oggi vigente, è possibile infatti leggere all’interno del nuovo articolato alcuni aspetti innovativi di ordine generale volti ad adeguare e risolvere problematiche gestionali e concettuali emerse negli otto anni di efficacia della 1/2005.

Già nei primi articoli del disegno di legge, quelli dedicati alla definizione degli obiettivi e delle finalità, è possibile ravvisare alcune modifiche lessicali interessanti per capire la nuova visione strategica e culturale che si pone alla base dell’azione normativa.

La promozione dello “sviluppo sostenibile delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio”, enunciata al primo comma dell’art. 1 e definita appunto quale oggetto e finalità delle successive disposizioni, diventa nella nuova stesura “la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale inteso come bene comune”; un cambiamento – rilevato da Semboloni – solo apparentemente formale, che tuttavia manifesta una profonda revisione dei modelli socio-economici dai quali la legge trae ispirazione.

Il modello dello sviluppo sostenibile – di un processo cioè che, tenendo conto delle capacità di auto-riproduzione dei sistemi di risorse alle quali attinge, è per definizione orientato ad una progressiva dinamica di crescita – è sostituito e mutuato dalla possibilità che il sistema economico-territoriale permanga in una condizione di equilibrio nel quale le azioni umane divengono tese non tanto ed esclusivamente allo sviluppo quanto alla conservazione e alla manutenzione dei territori.

Il nuovo testo normativo sembra assumere la sempre più diffusa perplessità che possa esistere un modello di sviluppo permanente, ancorché sostenibile, e condividere la tesi che un modello di una crescita infinita in un mondo finito sia contrario alle generali leggi della natura. (Georgescu-Roegen, 1994).

Ne deriva una concezione essenzialmente meno dinamica dell’interazione tra azioni umane e ambiente e sicuramente meno antropocentrica. L’obiettivo della pianificazione è quello della salvaguardia e della valorizzazione agenti, continua il nuovo testo, “in funzione di uno sviluppo locale sostenibile e durevole” che tuttavia diventa una possibilità subordinata e non più un obiettivo.

E’ riscontrabile in questa impostazione la sempre maggiore influenza esercitata in ambito economico-sociale, complice forse anche il particolare momento che l’Europa sta attraversando, dalle teorie della decrescita, riproposte e articolate negli ultimi anni da molti autori fra i quali il più noto è Serge Latouche, sostenitore della necessità di nuovo modello sociale post-sviluppo basato appunto sull’assenza di crescita e di sovra consumo (Latouche, 2008).

Una lettura confermata da un’altra proposta di modifica che riguarda sempre il Titolo I della legge: la modifica dell’art. 3 e la sostituzione del termine “risorse essenziali del territorio” in “patrimonio territoriale”. Anche in questo caso il termine risorsa, che induce a una visione del territorio e dell’ambiente in chiave produttiva, come materia prima, è sostituito da un termine, quello di patrimonio, che rimanda ad una stratificazione di lungo periodo non necessariamente finalizzata allo sviluppo e alla trasformazione.

Una distinzione, quella tra risorsa e patrimonio, più volte sostenuta e approfondita anche da Alberto Magnaghi (2000), fautore di una visione nella quale è “utile distinguere il patrimonio (che … è di lunga durata e in essa si costruisce e si accumula) dal suo uso come risorsa (che è contingente e relativa al ruolo che una specifica civiltà gli attribuisce)”. Una visione nella quale, per usare i termini di Semboloni, l’invarianza è preminente rispetto al cambiamento (Semboloni 2013). Si delinea quindi, seppur nei limiti di un testo normativo ancora fluido e mutevole, un parziale cambio del paradigma culturale che informa la legge e le conseguenti politiche di governo del territorio. Una modifica degli obiettivi alla luce di una visione post-sviluppo destinata giocoforza a prendere corpo nel dibattito urbanistico.

Un’altra linea di azione del processo di revisione è quelle tesa a precisare e definire alcuni strumenti normativi che rendano conseguenti e coerenti le parti statutarie degli strumenti urbanistici con quelle di natura più marcatamente operativa. E’ indubbio d’altronde come alcuni importanti temi della pianificazione abbiano assunto in questi anni una natura puramente dichiarativa, quasi con valenza di manifesto, per poi avere un’influenza minima nella pratica pianificatoria corrente.

Una volontà, quella di legare in modo più efficace gli elementi generali con quelli operativi, che è leggibile nelle modifiche riguardanti lo statuto del territorio, definito come cardine dell’identità dei luoghi e criterio di individuazione dei percorsi di democrazia partecipata dall’art. 5 del testo vigente e che viene rafforzato nella nuova stesura sottolineandone la valenza di “quadro di riferimento conformativo per le previsioni di trasformazione” da redigere attraverso la partecipazione delle comunità interessate.

La specificazione della natura “conformativa” e partecipata assegna così allo statuto del territorio una valenza che va ben oltre l’esposizione di auspici, indirizzi e generiche strategie andando ad interessare direttamente la disciplina d’uso dei suoli. Anche il tema del consumo di suolo agricolo è approfondito e spostato dalla generale enunciazione, finora limitata alla definizione della priorità del recupero e della riutilizzazione rispetto alla nuova edificazione (comma 4 dell’art.3 del testo vigente), alla precisa, e per certi aspetti radicale, individuazione degli ambiti suscettibili ad essere interessati da nuovi impegni di suolo. Nella proposta di legge, non unica ad avere una tale impostazione, (De Lucia 2013; AA.VV Eddyburg 2007) le previsioni di nuova edificazione potranno interessare solo le aree già urbanizzate e prive di caratteri di ruralità, operando così un sostanziale congelamento dei margini urbani esistenti. Le deroghe previste per gli insediamenti commerciali, produttivi e per le opere infrastrutturali vengono subordinate ad una verifica di sostenibilità nei confronti di una, forse poco precisata, area vasta.

Nell’ambito di una nuova articolazione normativa, rilevando alcune carenze emerse nell’attuazione della legge, è introdotta la proposta che forse più di tutte ha destato le opposizioni dei Comuni, ovvero la competenza della Regione ad esprimersi circa la conformità degli strumenti urbanistici, di qualsiasi livello, alla Legge regionale. Un passo indietro secondo i Comuni che leggono questa nuova impostazione come una negazione del principio di sussidiarietà tra i diversi livelli amministrativi introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione, così da prefigurare, secondo l’ANCI, un sostanziale ritorno al sistema normativo del “command and control” . Finora infatti Regione Toscana e Province limitavano il loro ruolo alla verifica di conformità rispetto ai relativi strumenti della pianificazione sovracomunale senza esprimere pareri in merito alla conformità generale nei confronti della legge, e senza esercitare forme di controllo sui contenuti della pianificazione.

Vero è che una tale impostazione ha spesso escluso la verifica dell’attuazione delle politiche strategiche regionali e portato ad una generale disomogeneità di linguaggi e strumenti tra i Comuni toscani. Su questo tema, peraltro, la Regione ha già mostrato una forte attenzione: è in questi giorni al vaglio delle Commissioni del Consiglio un ulteriore disegno di legge, che prevede la modifica dell’articolo 144 della 1/2005 e assegna al legislatore regionale il compito di definire, attraverso uno specifico regolamento, parametri urbanistici e definizioni che siano comuni, omogenei ed uniformi per tutto il territorio regionale.

Nuove procedure interessano anche gli istituti della partecipazione, inseguendo anche in questo caso la necessità di superare procedure formali che poco o nulla incidono sul processo decisionale. L’intenzione appare quella di spostare e garantire l’effettivo coinvolgimento delle comunità nella fase di progetto del piano, in una fase cioè in cui le scelte sono davvero suscettibili di essere modificate e integrate con eventuali soluzioni alternative. A questo scopo è introdotta l’obbligatorietà dell’avvio del procedimento anche per la fase di redazione e di approvazione del piano e il rafforzamento del Garante della Comunicazione come Garante del Partecipazione.

Interessante è infine il ritorno ad alcuni temi della pianificazione intercomunale con l’introduzione della possibilità di redigere un unico Piano Strutturale che interessi più amministrazioni. La pianificazione di area vasta è un tema che, più volte naufragato a livello nazionale, continua ad essere cruciale per la pianificazione strutturale dei comuni toscani, troppo spesso stretti in confini amministrativi che poco rispecchiano le peculiarità dei territori, e che per questo meriterebbe un ben più articolato ed organico momento di riflessione e approfondimento.

Nel disegno di riforma della legge regionale toscana modifiche all’impianto procedurale sembrano quindi convivere, integrate, con una più estesa revisione dell’orientamento culturale. Difficile è oggi stabilire in quale misura questi aggiustamenti normativi possano dare concreta risposta ai complessi problemi emersi negli anni di efficacia della Legge 1/2005; certo rimane indubbia l’opportunità di riaccendere un dibattito e una discussione su tematiche territoriali che vadano oltre la contrapposizione partigiana tra i diversi livelli istituzionali.

 

Riferimenti bibliografici

AA.VV. Proposta di legge urbanistica, Eddyburg 20/02/2007,

ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, Sintesi dei contenuti, ANCI Toscana, Working Paper.

ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, I temi principali, ANCI Toscana, Working Paper.

De Lucia V. (2013), Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato, Eddyburg 03/06/2013

Georgescu Rougen N. (1994), La Décroissance. Entropie, écologie, économie, a cura di Jacques Grinevald e Ivo Rens, Parigi, Sang de la terre.

Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino: Bollati Boringhieri.

Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Torino: Bollati Boringhieri.

Marson A. (2006), Dalla città metropolitana alla (bio) regione urbana, in Marson A. (a cura di) Il progetto di territorio nella città metropolitana, Firenze: Alinea.

Semboloni F. (2013), “Le leggi urbanistiche regionali e il governo delle dinamiche territoriali”, Eyesreg vol.3 n.3 maggio 2013

Semboloni F., (2013), “La Regione contro tutti. L’assessore riscrive la legge urbanistica regionale”, Toscana Oggi, 3/4/2013

 

 

Parcheggi interrati a Firenze:

manila città storica nella cornice del disastro,

di Ilaria Agostini.

Intervento all’incontro Parcheggi interrati nella città storica: le ragioni del no, organizzato da Comitato Oltrarnofuturo e Comitato per piazza Brunelleschi, con la collaborazione della ReTe dei comitati per la difesa del territorio e della lista consiliare perUnaltracittà, Fienze, 13 giugno 2013.

Il Piano Strutturale del Comune di Firenze, confezionato e approvato nel 2011 dalla giunta del sindaco mediatico, è un atto finalizzato all’incremento della rete viaria e del trasporto privato su gomma. Scelta che si manifesta con evidenza nella prima frase dedicata alla città storica, della quale peraltro si tace fino alla pagina 45 del documento di avvio del PS, dove, nello sconforto del lettore, si trova la seguente dichiarazione: «La prima azione da mettere in campo, per il centro storico, è promuovere la realizzazione di parcheggi interrati», nel centro storico stesso, ça va sans dire. Nelle norme tecniche di attuazione della città storica (UTOE 12) sono individuati ben nove siti – interni alla zona a traffico limitato o ad essa immediatamente prossimi – destinabili alla sosta in silos ipogei: piazza del Carmine; costa San Giorgio; lungarno della Zecca Vecchia; piazza dei Ciompi; piazza Strozzi; piazza Brunelleschi; piazza San Marco; piazza Indipendenza; piazza Ognissanti (cfr. NTA del PS, art. 35). Per la costruzione dei parcheggi interrati (da considerare a pieno titolo volumi edilizi, nonostante gli slogan del sindaco pubblicitario) il Comune si affiderà per lunga e infelice consuetudine all’istituto del project financing, strumento già dimostratosi non orientato alla pubblica utilità (si noti che, estrema perversione, la normativa vigente prevede che l’opera pubblica realizzata con project financing può essere ceduta al privato che la ha realizzata e gestita). La privatizzazione del sottosuolo (e il connesso movimento terra che, detto per inciso, è terra fertile per la camorra) si sta dimostrando – anche a livello nazionale – la nuova frontiera della speculazione e della bolla edilizia: basti pensare al tunnel TAV che sottoattraverserà viali e fortezza da Basso, alla linea di metropolitana sotto piazza del Duomo e al “tubone” pedecollinare per il traffico su gomma, entrambi previsti dal PS; non mancano esempi sul fronte dell’edilizia privata, dalle cantine vinicole patinate ai supermercati ipogei.

Al banchetto infrastrutturale, imbandito dal piano regolatore per la leccardìa dei costruttori, i privati spizzicheranno qua e là, fuori da un qualsiasi progetto organico di mobilità e di sosta improntato alla pubblica necessità, e fuori da qualsiasi bisogno espresso dalla cittadinanza.

I parcheggi interrati nella città storica sono da evitare per più ordini di ragioni, anche qualora fossero realizzati con meccanismi finanziari e concessòri trasparenti, e secondo pratiche pianificatorie civilmente condivise. Innanzitutto dal punto di vista della tutela degli insediamenti di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale, che è un obbligo costituzionale. Le piazze storiche, di proprietà collettiva, sono a tutti gli effetti patrimonio monumentale nella loro consistenza aerea, subaerea e ipogea: la conversione della loro superficie lastricata in solaio cementizio (segnato dalle grate di aerazione) del sottostante garage non deve essere consentita. In secondo luogo, è convincimento diffuso globalmente che i centri urbani debbano essere liberati dalla morsa del traffico privato su gomma e, possibilmente, dalle automobili medesime: un parcheggio interrato si limita invece a nascondere sotto il tappeto parte delle automobili in sosta, attraendo contemporaneamente nuovi volumi di traffico non residente. La gestione in project financing comporta infatti tariffe orarie elevate destinate all’uso veloce e, non favorendo la sosta di chi abita nel quartiere, di fatto contribuisce al processo in atto di gentrification ed estromissione dei residenti. Dal punto di vista tecnico-urbanistico, infine, si ritiene che sia da valutare con oculatezza l’opportunità di scavare un invaso profondo non meno di dieci metri in aree a rischio idraulico, quali sono tutte le piazze del centro fiorentino. Chi assicura infatti, nel caso di specie, l’«assenza di pericolo per le persone e i beni» e l’inesistenza di un «incremento dei rischi e della pericolosità idraulica al contorno», come richiesto dall’art. 2 della legge regionale 21/2012 redatta in risposta alle alluvioni disastrose in Lunigiana, legge che impedisce di fatto la nuova edificazione nelle aree a “rischio idraulico molto elevato”? La costruzione di un’opera edile ipogea in area a “rischio idraulico elevato” e contigua al letto del fiume, come piazza del Carmine, pone senza dubbio problemi di incolumità degli utenti, dei cittadini e dei beni. Il parcheggio nel piazzale delle Cascine – sinora non rammentato, ma in progetto – si trova poi in area di “rischio idraulico molto elevato” (cfr. http://geodataserver2.adbarno.it/pai%5Fpi10k/), ed è dunque illegittimo ai sensi della citata legge.

L’assenza di un piano particolareggiato per la città storica, assenza lamentata da anni da tecnici e cittadini ma ostentata per amor di modernità dagli amministratori, si accoda alla parabola discendente della conservazione dei centri storici peninsulari, che inanella le perle dell’Aquila e del piano di ricostruzione post-sisma emiliano, dove la LR 16/2012 affida ai tecnici la sorte degli edifici storici non vincolati, destituendo la pianificazione comunale dall’esercizio della tutela. Così, a Firenze, da vari decenni si opera nel tessuto storico con una sommatoria di interventi mal pianificati e mal programmati, laddove sarebbe necessario invece agire con i metodi del restauro e del recupero, in conformità con la Carta di Gubbio (1960) che riconosceva il valore monumentale dell’insieme degli elementi della città storica. Trascuriamo in questa sede la qualità di tali interventi passati nel silenzio metà incapace, metà impotente, della Soprintendenza fiorentina.

Ma cosa sta succedendo nel centro città interno alla cerchia muraria trecentesca? Esiste innanzitutto un “centro del centro”, il “salotto buono”, la “vetrina” o “bomboniera” a cui l’amministrazione del sindaco televisivo dedica un’attenzione maniacale con interventi sporadici e d’effetto – non richiesti né voluti dalla popolazione, tantomeno discussi in consiglio comunale – che consentono al primo cittadino l’approdo tanto trionfale quanto autistico sui media intercontinentali. Da anni la città antica comprendente il quadrilatero del castrum romano è stata disertata dai cittadini, sostituiti dai turisti, dagli eventi, dalla vita eterodiretta. Scenario delle notti bianche (quando i cittadini vorrebbero invece notti normali) e della grande produzione mediatica industriale, il “centro del centro” è stato, nell’ultima legislatura, ulteriormente isolato dal resto della città. Vi contribuiscono pesantemente: l’allontanamento dell’anagrafe da Palazzo Vecchio (sostituita da un improbabile asilo “aziendale”); la pedonalizzazione di piazza del Duomo (privatizzata poi dalle grandi terrazze di bar che arrivano a lambire la colonna di San Zanobi) e la deviazione dei percorsi degli autobus urbani sull’asse San Marco-Indipendenza, oggi sovraccarico; l’assenza di un sistema di trasporto pubblico con bus di piccola taglia adatti al tessuto urbano storico; il paventato sfratto del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux da palazzo Strozzi etc.

Dall’altra parte, la sorte dei quartieri storici limitrofi alla città antica prende due strade diverse: Sant’Ambrogio e Oltrarno si trovano in una fase di accelerazione dei processi di trasformazione del tessuto sociale, di sostituzione degli abitanti ed estromissione degli artigiani (i parcheggi interrati fanno parte del menabò). In via Palazzuolo e in San Lorenzo, invece, regna l’assenza di cura e manutenzione ordinaria, al pari di quanto avviene nelle periferie più distanti; il mancato recupero del complesso di Sant’Orsola ne è un esempio paradigmatico. Tutt’al più qualche intervento è mirato alla “sicurezza” (illuminazione da stadio nei vicoli; asfaltatura dei selciati sconnessi).

Questo scenario sconfortante potrebbe essere riscattato da una politica assennata sui grandi edifici storici in dismissione o già vuoti, alcuni dei quali in alienazione, che sarebbero naturalmente vocati ai servizi per la cittadinanza, a luoghi deputati alla socialità, ad atelier di produzione artigianale, ma anche a residenze sociali, richieste con sempre maggior urgenza dal Movimento di lotta per la casa (sulla residenza nei centri storici gli esempi non mancherebbero: Bologna, Saint-Macaire in Aquitania etc.). Ma, per quanto riguarda le previsioni di piano, si naviga a vista. Sul tema, che costituirebbe il fulcro del disegno dell’assetto urbano futuro, il documento d’avvio del Regolamento urbanistico (attualmente in elaborazione) con inopportuna ingenuità si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Chi, se non i privati, sembra essere la risposta. Gli edifici, privi nel piano strutturale di linee guida per la loro trasformazione, sono molti e di pregio, anche per localizzazione: il tribunale di San Firenze (l’ex convento dei Filippini, dietro Palazzo Vecchio), la corte d’Assise (progettata da Bernardo Buontalenti), il teatro Comunale, la scuola dei Carabinieri nei locali storici del convento di Santa Maria Novella, il Distretto militare nel convento di Santo Spirito, l’ex Ospedale militare in via San Gallo, la scuola di Sanità militare nel convento del Maglio in via Venezia, la sede allievi ufficiali in costa San Giorgio, l’ex distaccamento militare a Monte Uliveto, per citare solo i casi più illustri. Ancora un banchetto imbandito stavolta per università americane e multinazionali attratte dal marchio Firenze (il «brand fiorentino» troppo spesso richiamato dal sindaco globalizzato).

Occorrerebbe invece che le azioni da avviare sulla città storica si inquadrassero nella dimensione della cura, delle pratiche positive, orientate a ciò che Gandhi definiva autonomia di villaggio: autonomia nella produzione e riproduzione di risorse (alimentari, energetiche, culturali etc.) e di saper fare, di riappropriazione dei saperi. Su quest’ultimo punto, la città può offrire molto in termini di lavoro di prossimità e di alta manualità. Scalpellini per il ripristino e manutenzione dei selciati; muratori, restauratori, falegnami, imbianchini per l’edilizia storica nonché produzione di atlanti e guide per il suo recupero; fontanieri (in una città così poco generosa d’acque, fontanelli del sindaco a parte); artigiani di qualità, che esercitano a scala familiare la produzione manuale, secondo modelli e tecniche tradizionali, attualmente soffocati dagli affitti e dalla normativa che li equipara a industrie di piccola (ma mica tanto) dimensione. Chi scrive ritiene necessario e possibile prefigurare strategie che prevedano l’istituzione di uno status speciale per l’artigiano della città storica che consenta l’affrancamento dal vigente sistema contributivo e previdenziale, e la liberazione dalla rendita privata attraverso l’istituzione di appositi locali pubblici destinati a laboratori artigiani, nonché attraverso la libertà dell’apprendistato. La diffusione del piccolo commercio, delle sale di teatro e cinema di quartiere sarebbero favorite da una riduzione del gigantismo periferizzante (ipermercati, multisale, scaffali informatici). Per attuare queste poche cose è necessario un grande cambiamento da parte di amministrazioni – locali e centrali – e cittadinanza, nel senso della resistenza al liberismo e all’individualismo imperanti. Solo così si potranno perseguire e mettere in pratica magnificenza civile e pubblica felicità, obbiettivo di una buona politica.