Ricorso al TAR contro l’ inceneritore di Case Passerini.

5CatturaComunicato stampa

COORDINAMENTO DEI COMITATI DELLA PIANA, MEDICINA DEMOCRATICA  SEZIONE DI FIRENZE

Il coordinamento dei comitati della piana fiorentina rende noto che, su sua richiesta,le principali associazioni ambientaliste nazionali WWF, Italia Nostra e il Forum Ambientalista, con l’apporto tecnico dell’associazione Medicina Democratica, hanno presentato ricorso al TAR della Toscana per l’annullamento della delibera della Provincia di Firenze che ha approvato la valutazione di impatto ambientale (VIA) sull’inceneritore di Case Passerini .
Il ricorso mette in evidenza una serie di gravi irregolarità della procedura seguita per l’approvazione del progetto e denuncia la volontà dell’ Ente di perseguire l’obiettivo della realizzazione dell’impianto in evidente violazione – e in più casi a prescindere – dalle norme che disciplinano la legalità dell’intervento.

Il Ricorso afferma in particolare che:

  • la delibera di Via è in conflitto con il piano regionale di risanamento dell’aria il quale prevede di ridurre la popolazione esposta all’inquinamento atmosferico superiore ai valori limite – come è per l’aria della piana che a causa dell’ inquinamento atmosferico è zona sottoposta a obbligo di risanamento .
  • la VIA non esamina le alternative all’incenerimento come invece è tenuta per legge; violazione intollerabile a fronte di alternative praticabili.
  • la delibera viola il decreto legislativo 155/2010 il quale ha tra le sue finalità il mantenimento della qualità dell’aria ambiente, laddove buona, e migliorarla negli altri casi (art. 1 lett.d),
  • la stima delle concentrazioni degli inquinanti emessi non è allineata alle concentrazioni ai limiti di legge, ma ai limiti “garantiti” dal proponente che sono significativamente inferiori. E’ conseguente , dunque una sottostima del contributo emissivo dell’impianto all’inquinamento dell’aria nella piana; allo stesso tempo la valutazione del rischio delle emissioni non viene effettuata sui valori limite per i quali viene richiesta l’autorizzazione, ma su valori emissivi significativamente più bassi .
  • I parametri ( valori di soglia) di valutazione del rischio per la salute umana accettati dall’amministrazione sono di gran lunga superiori rispetto ai dati normativi di cui al decreto legislativo 155/2010 e a quelli dell’ OMS; ne segue anche in tal caso una inaccettabile sottostima della valutazione del rischio
  • la ASL ha reso esplicita la rischiosità dell’impianto per la salute umana avendo chiesto tra l’altro: 1.-la sorveglianza degli effetti sugli esiti riproduttivi (aborti spontanei, nati pre- termine e/o di basso peso , malformazioni congenite ecc) e sull’incidenza dei tumori potenzialmente correlabili alle emissioni dell’inceneritore e un progetto di controllo della contaminazione della catena alimentare da IPA, diossine e PCB, metalli pesanti, attraverso indagini presso le attività di coltivazione e di allevamento presenti nell’area di potenziale ricaduta delle emissioni dell’impianto e monitoraggio delle popolazioni animali .Ma questo è in contraddizione con la decisione positiva
  • non è stata fatta, come invece prescritto per legge la relazione di incidenza sul sito di importanza comunitaria prossimo all’impianto. Al suo esito doveva essere subordinata la decisione sul progetto. Si tratta di una grave violazione del diritto Comunitario.
  • non è oggetto di valutazione la produzione di scorie e ceneri volanti:
  • fino a 55 mila tonnellate anno e 9.000 tonnellate di ceneri altamente tossiche, di cui non si indica la destinazione finale e i relativi costi.
  • Emerge un grave difetto di istruttoria nel parere della Soprintendenza ai beni Paesaggistici. La soprintendenza, rinviando di fatto, qualsiasi valutazione ad altri momenti non si pronuncia in maniera chiara su quanto di sua competenza.

Il ricorso è sostenuto dalle firme di garanzia di oltre trecento cittadini i quali intendono in tal modo , insieme ai promotori del ricorso , sostenere l’azione giudiziaria in difesa del diritto alla salute e alla dignità morale delle comunità della Piana contro l’ aggressione che subiscono da decisioni contrarie all’interesse pubblico .
Il ricorso è stato comunicato anche ai Sindaci di Campi Bisenzio e di Sesto Fiorentino.
Ad essi i comitati chiedono di farsi avanti e di presentare a loro volta il ricorso contro la delibera della Giunta( ne hanno ancora il tempo con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ). Oltre che assolvere a un dovere istituzionale in difesa dei loro amministrati, essi avrebbero l’opportunità di non rendersi più acquiescenti alle decisioni prese in danno dei cittadini.

Il ricorso è stato curato dagli avvocati Claudio Tamburini e Marco Rossi.

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Con il “nuovo Pil” la politica lancia un messaggio devastante.

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di Enrico Rossi, da Huffington Post del 24 agosto 2014.

Chissà cosa direbbe oggi Robert Kennedy di fronte alla decisione di includere nel calcolo del Pil alcune forme di economia criminale. Sapendo che le attività illegali rappresentano nel nostro paese un punto di forza rispetto all’Europa, si è diffusa in Italia una attesa piena di speranza e ci si aspetta che le attività criminali, sulla base dei nuovi criteri, servano a fare pari e patta con il peggioramento che la ricchezza nazionale ha registrato nel secondo semestre di quest’anno. Robert Kennedy il 18 marzo 1968 denunciava in un discorso l’inadeguatezza del Pil come indicatore del benessere e del successo del suo paese. Il Pil – diceva – comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalla carneficina di fine settimana. Mette nel conto programmi televisivi che valorizzano la violenza. Cresce con la produzione del napalm, missili e testate nucleari. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna fi essere vissuta. Può dirci tutto sull’America – concludeva – ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. L’inclusione della criminalità nel Pil non fa altro che peggiorare questa situazione. Ed è indice di un cinismo che prescinde da ogni altra considerazione valoriale e che ormai sembra dominare ogni pensiero in campo economico. L’economia, in qualunque modo si faccia, è un valore in sé e rientra a pieno titolo nel calcolo della ricchezza di una nazione. Ha ragione il segretario dell’ANM Maurizio Carbone, quando definisce una “mostruosità” queste scelte e denuncia che in questo modo si fa un favore alle cosche, alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, riconoscendo loro uno status di produttrici di ricchezza e di lavoro. Infatti l’economia sommersa, le attività che sfuggono al pagamento di tasse e contributi, è già inclusa nel Pil e può essere fatta emergere con la lotta all’evasione e con la semplificazione fiscale. L’economia criminale invece deve essere combattuta ogni giorno dalle forze dell’ordine, dalla magistratura e dalle istituzioni allo scopo di estirparla completamente, perché non solo essa è illegalità e degrado morale, ma anche perché altera i meccanismi della concorrenza a favore di chi non ha scrupoli etici, e sul piano sociale significa oppressione e sfruttamento brutale. Sarebbe bene che la politica, anziché attendersi “sostanziosi” miglioramenti del Pil derivanti dalla criminalità, si rifiutasse di accettare questa mostruosità e rinnovasse e intensificasse il suo impegno nella lotta contro di essa e contro la metastasi economica, civile e morale che essa produce. Sono lontani i tempi nei quali con parole sempre attuali e non molto diverse da quelle di Robert Kennedy, un politico italiano, Enrico Berlinguer, si interrogava su che cosa e sul perché produrre, mettendo in discussione la qualità e non solo il “quanto” dello sviluppo. Enrico Giovannini, ex presidente Istat, sostiene che il ricalcolo del Pil con le attività criminali non è un misuratore di benessere ma serve ad avere un quadro più reale del funzionamento di un sistema economico. E aggiunge che in ogni caso ciò “non muterà il giudizio sull’andamento economico, perché oltre al Pil del 2013 sarà ricalcolato quello degli anni precedenti e sul confronto tra un anno e l’altro non dovrebbe cambiare quasi niente”. Ma allora se il Pil non misura il benessere, se includervi le attività criminali non modifica i nostri conti e i nostri obblighi rispetto al fiscal compact, perché lanciare un messaggio così devastante e soprattutto perché avvallarlo e non combatterlo sul piano politico? Mentre papa Francesco lancia ai mafiosi la scomunica, l’anatema più forte per il mondo cattolico, la politica rischia di accettare una idea di crescita lontana dall’uomo e dai suoi bisogni.

La spending spiana comuni.

6092322791_57cbe882e4_zdi Guido Viale, il manifesto, 23 agosto 2014.

Senza soluzione di continuità nel passaggio da Tremonti a Bondi e da Cottarelli a Gutgeld, e da Prodi e Berlusconi a Monti e da Letta a Renzi, la spending review sta planando come un avvoltoio su coloro che ne potrebbero essere i protagonisti, perché sono gli unici a sapere come stanno veramente le cose, e che invece ne sono le vittime: i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. L’obiettivo più immediato sono i Comuni, con i quali si va a colpire la democrazia nel suo punto più vitale ma anche più esposto. Vitale perché i Comuni incarnano la tradizione europea dell’autogoverno democratico a base associativa; perché i Comuni e le loro aggregazioni rappresentano la democrazia di prossimità e il possibile punto di applicazione di una democrazia partecipata; perché i Comuni sono tuttora i responsabili dei servizi pubblici locali, cioè di ciò che più direttamente condiziona lo svolgimento della nostra vita quotidiana.

Ma i Comuni sono l’oggetto delle brame di chi governa la spending review proprio perché i sevizi pubblici locali sono l’obiettivo di un saccheggio e di un meccanismo estrattivo messi in moto da un capitalismo che non è più in grado di garantire margini di profitto adeguati con l’investimento nell’industria. E la forma giuridica della società per azioni (Spa), sia interamente pubblica che mista, cioè pubblico-privata – in cui si sono andati costituendo nel corso degli ultimi venti anni quasi tutti i servizi pubblici locali – rappresenta il primo stadio della privatizzazione. Gli affidamenti diretti (cioè senza gara: il cosiddetto in-house) di cui beneficiano li rende particolarmente esposti a questa aggressione. Per svariati motivi.

Innanzitutto perché si tratta di una soluzione societaria incostituzionale e contraria alla normativa europea: gli affidamenti diretti non dovrebbero mai riguardare società di diritto privato che per loro natura perseguono il profitto, come le Spa. In secondo luogo, perché queste Spa sono state finora (le cose dovrebbero cambiare dal prossimo anno) una soluzione per collocare fuori bilancio costi e introiti di servizi che rientrano a pieno titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li controlla: infatti più di un terzo di quelle società censite sono in perdita permanente. In terzo luogo, perché grazie a questo meccanismo le Spa promosse dagli Enti locali (ma anche quelle promosse dagli Enti centrali) si sono moltiplicate per gemmazione: Spa create e controllate da altre Spa di origine pubblica, che ne svolgono una parte dei compiti in una catena di “esternalizzazioni” sempre più lunga; ma anche Spa preposte a funzioni lontane dai compiti istituzionali di chi le ha create. Cottarelli ne ha censite 10mila, ma secondo Ivan Cecconi, il massimo esperto italiano di questo obbrobrio, potrebbero essere oltre 20mila. In quarto luogo perché queste Spa sono un meccanismo corruttivo: assunzioni clientelari (né più né meno di quanto venga spesso imposto ai vincitori di appalti conquistati attraverso gare truccate: il clientelismo prospera non perché il gestore è pubblico, ma perché la mancanza di trasparenza sottrae gli affidamenti al controllo dei cittadini), gerarchia gestionale e consigli di amministrazione scelti tra il personale politico. Questo spiega l’attaccamento di alcuni partiti a Giunte le cui decisioni contraddicono frontalmente gli impegni assunti con i loro elettori contro privatizzazioni, consumo di suolo o proliferazione di società, incarichi e consulenze. E’ un meccanismo di consolidamento del ceto politico che spesso tiene in vita partiti che non avrebbero altra ragione di esistere.

Ma la spending review non si propone certo di “fare pulizia” in questo ginepraio, bensì di mettere i Comuni con le spalle al muro per costringerli a svendere ai privati (dietro a cui ci sono sempre più spesso banche e alta finanza) tutti i servizi pubblici, insieme a beni comuni di cui sono ancora in possesso. Saranno poi i privati a recuperare con speculazioni e aumenti delle tariffe i costi del servizio – ma anche i “margini” (cioè i loro profitti) – che i Comuni non sono in grado di coprire perché i trasferimenti dallo Stato si sono prosciugati e temono l’impopolarità se ad aumentare le tariffe fossero loro. Ma privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto i piedi.

Ci sono alternative a questa spirale? Sì. Innanzitutto in statuti comunali che dichiarino i servizi pubblici locali attività di interesse generale (e non commerciale). Poi nella trasformazione delle Spa in “aziende speciali”, per farli rientrare nel perimetro della Pubblica Amministrazione. A Napoli la trasformazione dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sembrava offrire un modello a questa transizione. Ma le ultime vicende dello statuto di ABC mostrano che senza una mobilitazione di massa e un fronte di “Comuni per i bani comuni”, tante volte promesso e mai realizzato, una transizione del genere rischia il soffocamento per il prevalere degli interessi dei partiti. Ma – si dice – ripubblicizzare le Spa non si può perché non c’è il denaro per riscattarne le azioni dai privati; ma il loro valore è legato a contratti di servizio fondati sull’affidamento in-house. Rivedere quei contratti introducendo condizioni più stringenti può privarle di gran parte del loro valore e persino rendere conveniente restituire le aziende ai Comuni.

In ogni caso, il solo fatto di mettere in campo progetti di conversione ecologica, di promozione dell’occupazione, di recupero di aziende altrimenti condannate alla chiusura può dare credibilità e basi solide a una contestazione radicale sia del patto di stabilità interna (quello che blocca la possibilità di investire per i Comuni), sia del patto di stabilità esterno (il fiscal compact) attraverso cui la finanza internazionale controlla, per il tramite della Commissione europea e della BCE, i governi e le politiche economiche degli Stati dell’Unione Europea, soffocandole. La conversione ecologica è un processo necessariamente decentrato, diffuso, differenziato, distribuito, capillare, che non può essere portato avanti senza il coinvolgimento della cittadinanza e dei governi locali; e per questo democratico. Affidarla alla grande impresa (l’essenza di quello che chiamiamo green economy), come è stato fatto in Italia e altrove con le energie rinnovabili, è stato solo un modo per trasferire risorse da chi paga le bollette (tutti noi) a chi incassa gli incentivi (per l’80 per cento, grandi investitori finanziari, per lo più anche estranei al settore energetico). Viceversa, nella generazione energetica, nell’efficientamento di edifici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel trasporto locale, nel servizio idrico integrato, le autorità locali, con il coinvolgimento della cittadinanza attiva, possono da un lato promuovere sistemi sostenibili di governo della domanda, dall’altro offrire sbocchi di mercato alla riconversione di aziende in crisi, eventualmente con soluzioni societarie e associative tra cittadini-utenti destinatari del servizio, aziende che lo erogano, governi locali e imprese fornitrici degli impianti, delle attrezzature e dei materiali necessari al soddisfacimento della nuova domanda. Lo stesso vale per tutti quei servizi che rientrano nella vasta gamma del welfare municipale: nidi, scuole materne ed elementari, assistenza agli anziani e alle persone svantaggiate, integrazione degli stranieri, formazione, ecc. Anch’essi sono sottoposti, con la spending review, a un processo di privatizzazione attraverso l’esternalizzazione delle prestazioni lavorative con cooperative sempre più legate a strutture finanziarie di comando che “trattano” con le amministrazioni locali per conto di tutte. E anche in questo campo occorre ricostruire un processo democratico a partire dalla partecipazione alla loro gestione.

 

1-15 agosto 2014: governo del territorio.

Fra riforme e controriforme

Non è proprio una pausa estiva. Fra le novità, quella del decreto del Ministero dell’Agricoltura per le cosiddette “terrevive”: ufficialmente, 5.500 ettari di demanio messi a disposizione (in vendita o in affitto) di presunti “giovani”, con molti quattrini. Un altro modo per svendere il patrimonio territoriale. I movimenti chiedono invece invece che tali terreni restino di proprietà pubblica e siano piuttosto affidati con bandi specifici (come viene chiesto per Mondeggi) a chi vuole diventare contadino custode di questo bene. Per ora c’è solo un articolo della Nazione.

01 agosto REP FI. Senza più regole l’espansione dei giganti dopo il no della Consulta alla legge regionale

03 agosto MANIFESTO. Agostini, Urbanistica tossica, Lupi sulla città

12 agosto ITALIA OGGI. Città metropolitane, un pateracchio

12 agosto QN. Martina dà Campolibero ai giovani «Centomila nuovi posti di lavoro»

15 agosto, IL FATTO QUOT. Riforme, da B. a Renzi, il libro dei sogni ora si chiama Sblocca Italia