L’Ilva toscana si chiama Solvay

Il più noto produttore di bicarbonato al mondo è indagato per scarichi abusivi: Solvay, a cui non sono mancate le certificazioni per l’impegno ambientale, ha disperso tonnellate di chimica e mercurio in mare e sulle spiagge. La domanda che rimbalza da Taranto a Livorno, passando per molti altre città, è: come possono i cittadini dare senso agli articoli della Costituzione che parlano esplicitamente di «utilità sociale» della proprietà privata e di possibile esproprio quali strumenti di resistenza al dominio del profitto?

di Alberto Zoratti, su comune-info.net.

Sembra di essere tornati nell’Ottocento. O forse no, non è questione di epoche, ma di chilometri. Sono quelli che separano quei luoghi che cercano per quanto possibile di tutelare ambiente e persone dall’invadenza del profitto e quei Paesi, condannati dallo sviluppo a rimanere la sentina della storia, che per attirare investimenti e produzioni venderebbero anche l’anima al diavolo, trasformandola in zona franca dove la tutela ambientale e sociale diventano variabili dipendenti dalla fame di profitto di aziende. E le sentine, come i capitali, non sono fisse ma molto mobili e dipendono dalle condizioni storiche in cui si trova un Paese e se di zone franche si parla per il Pireo, il nostro Paese, certamente più solido della Grecia, può avere altre armi per rimanere “competitivo” sui mercati degli investimenti diretti esteri.

Ad esempio attraverso politiche accomodanti o poco assertive verso chi si distrae sugli obblighi sociali od ambientali. “Sbagliato”, “sproporzionato” sono gli aggettivi che il presidente di Federacciai Antonio Gozzi ha riservato sulle agenzie al commissariamento dell’Ilva. Perché creerebbe “un pericolosissimo precedente” per “tutta la media e grande impresa nazionale”. Dopotutto la questione andrebbe affrontata “con il necessario e doveroso equilibrio istituzionale e senza una così palese violazione dei diritti della libera impresa”. Già, la libera impresa e la proprietà privata. Ampiamente citate persino in Costituzione, soprattutto all’articolo 41, dove si sottolinea come la libera impresa non possa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. O l’articolo 43 che ricorda come per preservare l’utilità generale è possibile l’esproprio di determinate imprese o categorie di imprese “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

Un precedente pericoloso

Che l’attività dell’Ilva abbia recato danno alla sicurezza pare sia dimostrato da tonnellate di documenti e da un’Autorizzazione Integrata Ambientale spinta dall’ex ministro Clini che seguita non proprio pedestremente dai vertici aziendali. Parlare però di esproprio è, purtroppo, fuori luogo. Perché di commissariamento si tratta, per giunta affidato all’ex Commissario Bondi (persona di fiducia degli stessi Riva) con la chiara clausola che dopo 36 mesi di risanamento (a spese di chi? Solo dell’azienda?) la proprietà rimarrà saldamente nelle mani della famiglia Riva.

E allora, di cosa parliamo? Di un pericoloso precedente, certamente sì. Ma per le ragioni opposte a quelle sostenute da Federacciai. Una comunità che non riesce a mettere limiti all’invadenza dell’impresa e della proprietà privata si mette su un crinale molto pericoloso che parla di deroghe su deroghe e di una qualità della vita, del lavoro e dell’ambiente costantemente a rischio sotto la spada di Damocle di un capitale salterino. Basterebbe dare un’occhiata al notiziario del nostro ministero degli esteri, datato ottobre 2012, per capire cosa significa per il sistema Italia attirare investimenti produttivi: “Il gruppo (formato tra gli altri dalla Cassa depositi e prestiti e da Confindustria) dovrà contribuire a individuare gli ostacoli alla realizzazione di investimenti esteri in Italia e le azioni nonché le priorità di intervento per la rimozione degli stessi”, concentrandosi sui “problemi di natura amministrativa o di controllo giudiziario che ostacolano la realizzazione di investimenti esteri in Italia”. Si pensava che il maggiore ostacolo oltre alla burocrazia fosse il controllo mafioso, non certo quello giudiziario.

Gli imprenditori chiedono che l’azione sull’Ilva si riferisca solo allo stabilimento tarantino, non in modo generale a tutto il mondo dell’impresa. Anche se il testo recita che il commissariamento (e purtroppo non parliamo di esproprio) è possibile per un’impresa “la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa della inosservanza dell’autorizzazione integrata ambientale”. Leggendo le reazioni del mondo imprenditoriale viene da chiedersi se queste preoccupazioni siano dettate dall’ipotesi che ci siano altre Ilva in giro per l’Italia che abbiano comportato o comportino “pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute”.

Livorno

Forse basterebbe spostare il cursore di Google Mappe passando dalla Puglia alla Toscana e specificamente a Rosignano, sede della Solvay, il più famoso produttore di bicarbonato (e di spiagge bianche) al mondo. La Procura di Livorno ha iscritto nell’albo degli indagati la direttrice uscente Michele Huart e quattro ingegneri ambientali per scarichi abusivi. L’azienda avrebbe collegato abusivamente alla fognatura gli scarichi di fanghi industriali in quattro punti diversi, per aggirare le rilevazioni dell’Arpat sugli scarichi a valle che, di conseguenza, sarebbero rientrati nei limiti di legge perché annacquati per diluirne la concentrazione. E se si pensa che un’interrogazione parlamentare del settembre 2010 faceva riferimento ad oltre 400 tonnellate di mercurio presenti in mare, dimostra quanto sia alta la sensibilità ambientale di parte del Gotha dell’imprenditoria moderna.

Eppure, a livello comunicativo, ce la mettono tutta: “Le società del Gruppo Solvay presenti nello stabilimento di Rosignano e nei Cantieri di S. Carlo e Ponteginori, in coerenza con i Valori del Gruppo e con l’adesione al Programma Responsible Care, intendono sviluppare il proprio impegno per il miglioramento continuo nella tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori per la prevenzione degli incidenti, degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, per la protezione ambientale e per la prevenzione dell’inquinamento”. Concetti e filosofie che ricordano molto quelle dell’Ilva di Taranto: “Lo stabilimento, consapevole dell’impatto ambientale delle proprie attività, si è dotato di un sistema di gestione ambientale in conformità ai requisiti previsti dalla norma UNI EN ISO 14001, norma per la quale ha ottenuto, nel 2004, la certificazione da parte di un accreditato ente esterno di certificazione”.

Con buona pace di parole come “ambiente”, “certificazione”, “gestione ambientale” e “sicurezza”. Parole vuote ma molto utili per confondere le carte. Come quella parola, “commissariamento”, che sostituisce in modo chiaro e inequivocabile l’unico concetto possibile: “l’esproprio”.