Consumo di suolo in Italia - 2013

Paesaggio: ecco come diamo i numeri

Riportiamo l’articolo di Salvatore Settis sul Sole 24 Ore di domenica 24 febbraio.

Il divorzio tra tutela dell’ambiente e politiche urbanistiche ha provocato evidenti danni in Italia. Ma come si misura con esattezza il «consumo di territorio»?

I dati da considerare sono tanti, dal censimento degli immobili suscettibili di riuso, al rapporto popolazione-edifici, alla riduzione delle aree agricole.

Se tutto è probabile e nulla è certo, l’universo dei dati è una nuvola in cui ognuno vede la forma che più gli piace. Per gestire il suolo d’Italia occorrono non approssimazioni ma dati certi, che l’Istat può offrire con massima trasparenza a chi governa, ma anche ai cittadini che vogliano «vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (Urbinati): questa è infatti la regola della adversary democracy, che senza soppiantare la rappresentanza politica ne è il necessario controcanto.

I dati sul consumo di suolo sono discontinui, disomogenei nello spazio e nel tempo, lacunosi e contraddittori. Eppure sarebbe essenziale averne chiara nozione, in un Paese in cui si perpetua il peccato d’origine della legislazione di epoca fascista: il mancato raccordo fra tutela dei paesaggi (legge Bottai, 1939), assegnata alle Soprintendenze, e pianificazione urbanistica, controllata dai Lavori pubblici nella legge del 1942.

Entrambe le leggi contenevano garanzie contro l’eccessivo consumo dei suoli: la legge urbanistica intendeva «garantire una permanente supremazia dello Stato sull’interesse privato» (De Lucia), «funzionalizzando la proprietà a fini di interesse collettivo» (Lanzinger). Si ritenne allora che il nodo della speculazione fondiaria nelle aree urbane si potesse affrontare normando separatamente tutela dei paesaggi e crescita delle città. Ma si trascurava così la delicatissima sutura fra città e campagna, quella mutua integrazione per cui Goethe poté dire che in Italia le architetture sono «una seconda natura, indirizzata a fini civili». Questa “zona di trapasso”, che fu il punto di forza del paesaggio italiano, è diventata la “zona grigia” in cui sorgono le tristi periferie che ci assediano.

La Costituzione, assegnando allo Stato la tutela del paesaggio (articolo 9) e a Regioni e Comuni le competenze urbanistiche (articolo 117) ha ulteriormente moltiplicato le competenze.

La legge urbanistica non fu applicata né durante la guerra né dopo, quando la ricostruzione indusse ad accantonarla sotto il segno dell’emergenza.

La ricostruzione postbellica innescò processi di consenso politico e di stabilizzazione sociale legata alla distribuzione degli alloggi, ma nulla fu fatto per indirizzare all’interesse generale l’uso delle aree fabbricabili.

Si radicarono allora due pregiudizi coi quali dobbiamo ancora fare i conti, quasi in un lunghissimo dopoguerra: l’idea che l’edilizia sia fattore trainante nell’economia del Paese, anche a scapito dei suoli agricoli; e la concezione della proprietà immobiliare come bene-rifugio, privilegiando una statica economia della rendita al dinamismo degli investimenti produttivi.

Sul divorzio fra tutela del paesaggio e urbanistica si sono innestati altri fattori di disgregazione, in una sedimentazione normativa di corto orizzonte che intreccia le competenze mettendole in competizione fra loro.

Si è giunti così al disordinato accavallarsi delle nozioni giuridiche non solo di “paesaggio” (di competenza statale) e di “territorio” (di competenza regionale e comunale), ma anche di ambiente (con un proprio Ministero) e di suoli agricoli (con relativo Ministero). È dunque necessario ricomporre in uno questi aspetti, avendo di mira il principio costituzionale dell’utilità sociale e correlando alcune serie di dati: consumo di suolo; rapporto fra nuove edificazioni e fabbricati abbandonati, degradati o invenduti; destinazione edilizia di suoli agricoli e deindustrializzati; rischio sismico e idrogeologico; infine, il nesso fra nuova edificazione abitativa e variazioni demografiche.

Sul consumo di suolo si accavallano nei media dati sempre preoccupanti, ma spesso incoerenti fra loro, e talora confusi con la riduzione della Sau (superficie agricola utilizzata). Si ricorre a varie forme descrittive (per esempio: «ogni giorno si cementificano 161 ettari», oppure «l’Italia perde suolo alla velocità di 8 mq al secondo»), difficilmente confrontabili tra loro anche perché emergono da basi di dati create per scopi non omogenei (pianificazione territoriale, controlli delle coltivazioni, valutazione ambientale, rischio idrogeologico…).

Si parla solo in termini di quantità assolute, e non di qualità dell’occupazione dei suoli. La sovrabbondanza dell’informazione non favorisce la conoscenza, la ostacola; la grande muraglia dei dati è una diga insormontabile per chi voglia tentare di capire.

Sarebbe invece interessante misurare la necessità di nuove edificazioni in relazione alle esigenze abitative, tenendo conto di fattori spesso trascurati: l’incidenza dei fabbricati abbandonati o degradati suscettibili di riuso e la quantificazione delle unità abitative di recente costruzione che sono rimaste invendute o sfitte.

Se il dato spesso ripetuto (due milioni di appartamenti invenduti) risponde al vero, quali conseguenze ne trarremo? Come giudicare l’abbandono dei suoli agricoli e la loro riconversione a uso edilizio, che condanna all’infertilità vaste aree tra le più fertili del mondo (pianura padana, Campania)?

Quel che vorremmo sapere è se e quanto, al di là delle convenienze del singolo, la comunità dei cittadini nel suo insieme perde o guadagna da tali variazioni d’uso. Qualcosa di simile si può dire delle aree de-industrializzate riconvertite a uso edilizio dopo aver delocalizzando all’estero la produzione: ma quale è la convenienza della comunità dei cittadini nel suo insieme? E come si misura?

Infine, le attività edilizie vanno poste in diretta correlazione con la curva demografica. A un minimo incremento demografico corrisponde in Italia un enorme consumo di suolo, con una divaricazione preoccupante, tanto più che calano di numero i giovani in età adeguata alla formazione di nuove famiglie mentre aumentano gli anziani, con conseguente diminuzione delle esigenze abitative.

Intanto, la revisione spesso radicale della pianificazione territoriale a livello comunale vien fatta sulla base di incontrollate previsioni di crescita demografica, trasformando in suolo edificabile enormi estensioni di suolo agricolo (per esempio, è sulla base di un improbabile incremento demografico che nel 2011 a Treviso si è raddoppiato il territorio edificabile, portandolo a 338.000 metri quadrati).

È dunque necessario non solo raccogliere e verificare questi dati, ma anche metterli in correlazione esplicita fra loro, facendone strumento di conoscenza e di governo. Per citare un altro esempio: secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana, il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico; i danni si calcolano in 3,5 miliardi l’anno, e intanto gli investimenti per la manutenzione del territorio calano di anno in anno. Messa in sicurezza del territorio, recupero dell’abbandonato, controllo della nuova edificazione sulla base di parametri certi, a cominciare dalle proiezioni di crescita (o non-crescita) demografica e dai dati sull’invenduto: questi ed altri indirizzi di una nuova politica del territorio dovrebbero avvalersi dell’esperienza e della competenza Istat per costruire un nuovo modello che meriti una parola oggi molto usata ma troppo spesso a sproposito: sviluppo.

A proposito di (inesistenti) diritti edificatori

Un commento di Paolo Baldeschi.

La recente sentenza del Consiglio di Stato (n. 6656/2012 del 21 dicembre) ribadisce, con ampie e interessanti argomentazioni, la non irreversibilità della destinazioni urbanistiche (a meno di convenzioni già stipulate fra comuni e privati). Il fatto che le previsioni dei piani regolatori non stabiliscano alcun diritto edificatorio da lungo tempo era stato sostenuto da Edoardo Salzano e da numerosi giuristi, quindi non costituisce una novità. La novità sta piuttosto nelle argomentazioni addotte dal Consiglio di Stato che travalicano l’ambito giuridico e procedurale per entrare nella sostanza della materia, con prese di posizioni di principio, assai importanti:

«l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima» (corsivo nostro).

Quanti sono i piani regolatori, comunque chiamati, che tengono conto delle effettive esigenze di abitazione, dei valori ambientali e paesaggistici , del modello di sviluppo in considerazione di storia e tradizione? Infine, appare innovativo e significativo che l’urbanistica sia prefigurata come autodeterminazione della comunità interessata.

Sul piano giuridico, quindi, non vi sono novità, ma piuttosto una forte presa di posizione che varrà in futuri contenziosi. Tuttavia vi è da notare che la “trappola” non sta tanto nella pretesa irreversibilità delle destinazioni urbanistiche, quanto nelle tasse (ICI e ora IMU) che vemgono pagate dai proprietari sul valore delle aree fabbricabili, non al momento della loro vendita o utilizzazione, ma a partire dall’adozione del piano. Quindi si crea una situazione paradossale: un Comune può imporre una tassa per un piano regolatore che non sarà mai approvato o per un piano particolareggiato di iniziativa pubblica che non sarà mai realizzato. Succede perciò in molti casi, soprattutto quando vi sia una pluralità di proprietari interessati, che le destinazioni urbanistiche non stabiliscano uno stato di diritto, ma un’impossibilità finanziaria a “tornare indietro” nel caso che il regolamento comunale preveda la restituzione dell’IMU, o un’impossibilità “politica” nel caso contrario. Molto più logico sarebbe, come avviene in tutti i paesi del Nord Europa, che la tassazione fosse imposta al momento in cui la fabbricabilità diventa effettiva: o che fossero introdotte altre forme di “appropriazione” della rendita da parte del pubblico.

Rimane tuttavia un tema assai interessante: se la sentenza, in quanto proveniente dal massimo organo amministrativo, faccia giurisprudenza, cioè se i principi in essa contenute, possano essere applicati, indipendentemente dalla questione della reversibilità delle destinazioni urbanistiche: cioè se i piani debbano essere vagliati per la loro conformità ai principi enunciati e in particolare debbano essere intesi come autodeterminazione della comunità interessata, ciò che, in via minimale, implicherebbe che la partecipazione dei cittadini e le loro osservazioni dovrebbero avere un peso effettivo e determinante e non essere solo stanche formalità come avviene in tutte le regioni e anche in molti comuni toscani: questa sarebbe una vera innovazione.

Paolo Baldeschi

Rassegna Stampa

10 – 19 febbraio 2013

fotovoltaicoNuovi interventi sui temi della “piattaforma toscana”

La geotermia sull’Amiata continua a far discutere

L’attività di comitati e associazioni

 Le inchieste in corso (solo una selezione)

SEGNALAZIONI (Rete delle Reti)

 

Rimigliano

Tenuta di Rimigliano: la “prova del nove” per l’urbanistica toscana.

Ricorso avverso il progetto turistico edilizio nella Tenuta di Rimigliano senza le valutazioni di impatto ambientale.

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus ha inoltrato uno specifico ricorso (14 febbraio 2013) avverso le prime istanze di permesso di costruire le prime otto residenze mediante ristrutturazione e modifiche del Podere Le Chiusacce, facente parte della Tenuta di Rimigliano e dell’ampio unico progetto immobiliare della Rimigliano s.r.l. rientrante nella variante urbanistica che interessa la storica Tenuta di Rimigliano, (“variante al regolamento urbanistico per il sottosistema della pianura costiera – Tenuta di Rimigliano”) in un contesto ambientale-paesaggistico di rara suggestione, in Comune di San Vincenzo (LI).

Nelle scorse settimane – secondo segnalazioni pervenute dai combattivi Soci toscani del GrIG e dal Comitato per Campiglia – sarebbero state presentate, infatti, le prime richieste per costruire senza che fossero svolte preventivamente le vincolanti procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), come già reso noto dalla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, e di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.), che devono riguardare l’intero progetto e non singole parti.

Interessati la Commissione europea, il Ministero dell’ambiente (Ministro, Direzione generale valutazioni ambientali), il Ministero per i beni e attività culturali (Ministro, Direzione regionale, Soprintendenza per i beni ambientali di Pisa), la Regione Toscana(Presidenza, Assessorato all’urbanistica, Direzione generale politiche del territorio), la Provincia di Livorno, il Comune di San Vincenzo, il Corpo forestale dello Stato, i Carabinieri del N.O.E. di Grosseto e, per informazione preventiva, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Livorno.

Si ricorda che nel periodo marzo-aprile 2012 si era tenuto il procedimento davanti alla Conferenza paritetica interistituzionale fra Comune, Regione Toscana e Provincia di Livorno, conclusosi con il prescritto parere di competenza (artt. 24-26 della legge regionale Toscana n. 1/2005) in base al quale il Comune di San Vincenzo è stato invitato ad apportare modifiche della variante urbanistica approvata definitivamente con deliberazione Consiglio comunale n. 83 del 3 ottobre 2011.

In precedenza sono stati inoltrati da parte del Gruppo d’Intervento Giuridico onlus altri tre ricorsi (27 luglio 2011 , 11 novembre 2011e 16 gennaio 2012), che avevano portato a varie prese di posizioni formali da parte di amministrazioni pubbliche.

In particolare, la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana – l’organo del Ministero per i beni e attività culturali che coordina gli Uffici ministeriali periferici toscani – aveva comunicato (nota prot. n. 18823 del 30 novembre 2011) di aver chiesto alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Pisa di svolgere i necessari accertamenti e, soprattutto, di aver fatto constatare al Comune di San Vincenzo che “non risulta l’attivazione della procedura di Valutazione Ambientale Strategica necessaria per porre in essere la variante al Regolamento Urbanistico” riguardante la Tenuta di Rimigliano.

Enrico Rossi, Presidente della Regione Toscana, rispondendo (e-mail del 7 novembre 2011) al precedente ricorso ecologista, aveva assicurato “grande scrupolo” nell’esame della documentazione del caso che deve pervenire dal Comune e nella valutazione dell’eventuale presenza degli “estremi per adire alla conferenza paritetica interistituzionale”, prevista dalla legge regionale Toscana n. 1/2005 e s.m.i. qualora vi siano contrasti fra atti di pianificazione regionali e comunali. Convocazione puntualmente avveratasi.

Desta notevole stupore il mancato coinvolgimento delle strutture toscane del Ministero per i beni e attività culturali nella necessaria procedura di V.A.S. fin dai primi momenti, quali “soggetti competenti in materia ambientale”, trattandosi di un’area tutelata con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).

Anche dalle “osservazioni” inoltrate (marzo 2011) dalla Regione Toscana (art. 17 della legge regionale n. 1/2005), in merito alla variante urbanistica in argomento si evince con chiarezza l’assenza di una corretta, preventiva e vincolante procedura di valutazione ambientale strategica (V.A.S.).

La V.A.S., prevista dalla direttiva n. 2001/42/CE, interessa piani e programmi aventi effetti sensibili diretti ed indiretti sull’ambiente e le varie componenti ambientali (artt. 12 e ss. del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.), mentre la Regione Toscana vi ha dato attuazione con la legge regionale n. 10/2010. La conclusione del procedimento di V.A.S. è precedente e vincolante all’approvazione definitiva ed all’efficacia dei piani e programmi ad essa assoggettati. Fondamentale è la fase dellaconsultazione del pubblico con le specifiche modalità previste dalla legge. Si ricorda, inoltre, che “la VAS costituisce per i piani e programmi a cui si applicano le disposizioni del presente decreto, parte integrante del procedimento di adozione ed approvazione. I provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge” (art. 11, comma 5°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.).

Ancora più evidente il vizio di legittimità di eventuali autorizzazioni senza il preventivo assoggettamento dell’intero progetto immobiliare alla procedura di verifica preventiva (direttiva n. 2011/92/UE, decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.), finalizzata a verificare gli impatti sull’ambiente.

La Toscana ha goduto negli ultimi decenni d’una fama – meritata – di rilevanti capacità di buon governo del territorio. Capacità frutto di pratiche e di equilibri secolari, ammirati in tutto il mondo.

Gli ultimi anni, però, han portato anche qui avidità, cemento, mattoni. E si rischia di perdere ambienti, identità e atmosfere che attirano milioni di turisti ogni anno.

Il Governatore della Toscana sa bene – come tutti noi – che la vicenda della Tenuta di Rimigliano è proprio una specie di prova del nove per comprendere dove sta andando il buon governo del territorio toscano.

La Tenuta di Rimigliano, a parere del Gruppo d’Intervento Giuridico onlus (da tempo impegnato per la sua difesa) sta bene così com’è, senza altro cemento.

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus