di Ilaria Agostini, il manifesto, 22 aprile 2015.
Che il possibile fallimento del comune di Roma e degli altri centottanta comuni italiani sia il risultato coerente e legittimo di un sistema economico-politico esso stesso fallimentare, e non l’accidentale disfatta legata al malaffare o alle ruberie di qualche amministratore, è illustrato con lucidità nell’ultimo libro di Paolo Berdini: Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli). Con dovizia di esempi l’autore dimostra come, nel «ventennio liberista», la gestione della polis – l’urbanistica – abbia acquisito assoluta centralità nelle scelte politiche di un paese in cui il «mattone di carta» e la privatizzazione dei servizi al cittadino hanno aggravato la miope scelta dell’edilizia come motore dell’economia nazionale.
Il condono craxiano, il primo della tripletta 1985–1994-2003, è «lo spartiacque». A distanza di pochi anni, nel pieno di «Mani pulite» e in «clima di fastidio per le regole», la legge 179 del 1992 introduce nella pratica urbanistica la contrattazione pubblico-privato «che diventa immediatamente arbitrio»: l’interesse comune è, da allora, legalmente sottordinato all’interesse dei particolari.
I valori immobiliari aumentano, sulla loro crescita si fonda il consenso politico: l’«urbanistica scellerata» si rivelerà infatti strumentale «a nascondere i tagli delle pensioni, i licenziamenti, il contenimento degli stipendi e la precarizzazione del lavoro». La diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni, unita all’opera demolitoria di Bassanini (che nel 2001 devasta la legge Bucalossi), dà il via libera alla cementificazione dei territori comunali in risposta alle penurie di cassa. L’economia neoliberista peninsulare si orienta quindi francamente sul mattone (quello vero e quello modernissimo «di carta»). È il prodromo della bolla edilizia, alimentata dai crediti elargiti alle imprese edili in base al loro capitale fisso: in un circolo vizioso, le imprese costruiscono ormai solo per poter continuare a costruire. Con «un milione di alloggi nuovi invenduti», il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea.
La legittimità dello sfascio territoriale e della contrazione del welfare urbano è il tratto caratteristico del ventennio descritto nel libro che segue il passaggio graduale dall’abuso classicamente inteso, di cui Berdini è riconosciuto esperto (si veda la sua Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, 2010), all’abuso come strumento amministrativo dell’«urbanistica scellerata». Leggi criminogene (l’esempio più chiaro è la Legge obiettivo del 2001) e speculazione finanziaria rendono la città un grosso affare economico a detrimento della sua cultura, delle relazioni sociali che vi si intessono, dei cittadini che vi abitano e vi proiettano le proprie aspirazioni di vita. L’erogazione dei servizi urbani, privatizzati e mercificati, drena enormi ricchezze e diventa l’occasione privilegiata per il «finanziamento occulto del famelico mondo della politica».
Facendo seguito alla crisi dei subprime, i valori immobiliari arrivati alle stelle nel 2008 cadono in picchiata: le famiglie italiane che avevano acceso mutui a buon mercato «finanziati dall’economia di rapina», si ritrovano a pagare l’abitazione a un prezzo iniquo. O a vedersela pignorare per insolvenza.
Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano «sempre più grandi e più ingiuste». All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese per i trasporti, per asfaltare le strade, per acquedotti, fognature; e, «se aggiungiamo anche i costi di esercizio quotidiano che durano un tempo indefinito – scrive Berdini –, cogliamo il disastro provocato dall’urbanistica liberista». Dunque: più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari «che hanno deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è fondata la vita della città» (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro il patto generazionale). In questa spirale, le casse comunali collassano: con un debito di 22 miliardi di euro, nell’aprile 2014 il comune di Roma dichiara bancarotta. Per la sua gravità, la vicenda passa sotto silenzio. Viene adottata una «soluzione geniale» presa a prestito dal copione del liberismo economico: istituire, secondo il modello sperimentato per l’Alitalia, una bad company in cui far confluire i debiti, e «creare una nuova società pulita» – Roma Capitale – con gli stessi confini amministrativi del precedente comune. Il piano di rientro dal debito, nel segno dell’austerità, crea nuove sofferenze urbane, ben rappresentate dal taglio di più di cinquanta linee di autobus verso le «periferie dolenti».
La svendita del patrimonio comune, in principio non «alienabile, usucapibile, espropriabile», è l’ulteriore pesante elemento di pauperizzazione delle città italiane; i cittadini vengono espropriati del fondativo diritto alla proprietà collettiva, come ricorda nelle belle pagine introduttive Paolo Maddalena.
Da questo diritto fondamentale nasce l’ipotesi del progetto corale delineato da Berdini per la ricostruzione della «città pubblica», l’«abbellimento» delle periferie e per la nuova vita delle aree interne, neglette dal modello metropolitano. Il «lievito spontaneo che le salverà» è già pronto: la rete delle esperienze dei comitati e delle associazioni «ha messo a fuoco i problemi, costruito ipotesi collettive di soluzione». Il suo auspicato «salto di qualità» rappresenta la speranza concreta per uscire dal fallimento neoliberista.