Qualità del paesaggio, qualità del piano

da Montevenere_7

 

di Claudio Greppi, 31 marzo 2015.

Ora che il Piano paesaggistico della Toscana è stato approvato, in extremis, anche in sede di Consiglio regionale proprio allo scadere della legislatura, possiamo finalmente cominciare a parlarne senza dipendere dall’urgenza della polemica e dai condizionamenti delle trappole politiche. Chiaramente l’approvazione non chiude affatto la vicenda della tutela del territorio toscano, ma apre nuove sfide i cui esiti si potranno verificare soltanto in futuro e dipenderanno da quanto la società e la cultura toscana, nel loro insieme, sapranno comprendere l’importanza del nuovo strumento che si troveranno a disposizione. Piuttosto, tenuto conto che l’ultima parola è venuta da parte di un organismo politico come il Consiglio regionale, che si è rivelato quanto mai riottoso e meschino di fronte ai compiti che doveva svolgere, ci dobbiamo chiedere quanto il Piano approvato rispecchi l’impostazione originaria e quale sia la portata degli inevitabili compromessi che sono stati fatti per poter arrivare alla positiva conclusione della procedura. Ricordiamo che il Piano è passato dalla fase di elaborazione scientifica affidata al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio (2011-2013) all’approvazione da parte della Giunta (maggio 2014), alla successiva adozione da parte del Consiglio (2 luglio 2014), alla fase delle oltre 600 osservazioni presentate entro settembre, alla successiva versione “controdedotta” approvata dalla Giunta il 4 dicembre sulla quale si è poi svolto il dibattito consiliare, con i suoi emendamenti e maxi-emendamenti, fino al voto di venerdì 27 marzo.

Anna Marson, che del Piano è stata la principale animatrice e la vera coordinatrice in tutti i tortuosi passaggi, ha osservato che il Piano ha comunque conservato le qualità che si attribuiscono a un piano paesaggistico. Gli stravolgimenti proposti nel dibattito consiliare sono stati ridimensionati anche grazie all’intervento del Ministero dei Beni Culturali. Dichiarava infatti Anna Marson, subito dopo il voto: «Soltanto la verifica in extremis con il Mibact, con il quale il piano va necessariamente copianificato anche per dare attuazione alle semplificazioni che da esso discendono […], ha portato con un grande sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti, e del Presidente Rossi in prima persona, a recuperare almeno in parte alcuni dei contenuti essenziali che permettono di qualificare questo piano come  “piano paesaggistico”».

Ma cominciamo col dire che il Piano non riguarda solo cave di marmo o spiagge o vigneti: se di questi casi si è parlato, fin troppo, è perché dalla lettura affrettata, o distratta, di alcune parti del testo gli interessati avevano ricavato l’idea che i propri interessi di parte potevano essere lesi: e sicuramente certi interessi legati alla rapina delle risorse territoriali vengono perlomeno limitati dalla normativa del PIT, soprattutto se qualcuno (enti o cittadini) saprà giovarsene. La mobilitazione che si è verificata in queste settimane, e non solo in Toscana, intorno alla vicenda del Piano del paesaggio, va nel senso giusto e va mantenuta attiva sia in fase pre-elettorale che soprattutto dopo, nella prossima legislatura regionale.

Con questo intervento mi propongo di analizzare alcuni elementi di novità di questo Piano, a partire per adesso dalle enunciazioni generali dei primi articoli della Disciplina di piano, dove gli emendamenti hanno potuto modificare ben poco (ma quel poco può comunque essere segnalato). Spero che altri proseguano questo lavoro per mettere in luce gli aspetti innovativi del Piano in tutte le sue diverse articolazioni.

Per esempio se si prende in esame l’art.1, Finalità e contenuti del Piano di Indirizzo territoriale con valenza di Piano Paesaggistico, troviamo subito che al comma 4 si dice: «Il PIT, in quanto strumento territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, disciplina, sotto tale profilo, l’intero territorio regionale e contempla tutti i paesaggi della Toscana». E infatti la stessa Marson, nel suo intervento dopo il voto, richiamava questo aspetto: «laddove il Codice richiede che il Piano si interessi di tutto il territorio regionale, si chiede infatti, di conseguenza, un cambio della centralità dai vincoli (prescrizioni che riguardano i soli beni paesaggistici formalmente riconosciuti) alle regole di buon governo per tutto il territorio, compresi quindi i paesaggi degradati, le periferie, le infrastrutture, le aree industriali, gli interventi idrogeologici, gli impianti agroindustriali, ecc); dunque regole per indirizzare verso esiti di maggiore qualità le trasformazioni quotidiane del territorio, e non solo preservare i suoi nodi di eccellenza».

Il comma 4 non risulta sia mai stato oggetto di modifica nei diversi passaggi del testo. Qualche volta invece sono intervenute alcune modifiche, come quella di introdurre al comma 1, fra i caratteri peculiari dell’identità del territorio, dopo l’identità sociale e culturale e prima di quella ambientale, il riferimento ad una identità “manifatturiera e agricola”[1]. Si allude evidentemente alla peculiarità di un paesaggio “manifatturiero”, che poi troveremo identificato con quello delle cave di marmo, mentre poteva essere applicato piuttosto a quegli episodi di archeologia industriale che le trasformazioni recenti hanno tranquillamente ignorato: come nel caso della Fiat di Novoli. Per il resto la modifica del testo è puramente pleonastica.

Più complesso il caso dell’introduzione ex-novo di un comma (1 bis, che troviamo già nella versione controdedotta[2]): si introduce qui il concetto di una supposta “conciliazione”, che prelude alla formula della “coniugazione fra tutela e sviluppo” fin troppo abusata ieri come oggi. Se nella versione originaria del Piano non si era sentito il bisogno di rendere esplicita la relazione fra paesaggio e benessere è sicuramente perché nella cultura che ha ispirato tutti i lavori preparatori il territorio è considerato patrimonio sociale e come tale componente di una ricchezza effettiva e duratura. Forse era sufficiente – visto che si fa riferimento alla nuova Legge per il governo del territorio, la 65 del 2014 – citarne il passaggio (art.3, comma 1) nel quale si definisce il patrimonio territoriale: «Per patrimonio territoriale si intende l’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future».

E infatti il concetto di “patrimonio territoriale” è alla base di tutta l’impostazione del Piano, come si legge fin dal comma 3[3], e dipende non da valori puramente estetici, ma dall’interpretazione strutturale della morfologia paesaggistica: che troviamo indicata al comma 5, come primo elemento fra i contenuti del Piano[4]. Qui i beni paesaggistici compaiono per la prima volta, in quanto sono oggetto di vincolo ex legge 1497/39 o ex legge 431/85: e quindi sottoposti a una disciplina particolare, concordata con le Soprintendenze e con il Mibact (allegato 8B, Disciplina dei beni paesaggistici ai sensi degli artt. 134 e 157 del Codice). A ben guardare, a parte le aree comprese nella Galasso, la geografia dei vincoli, in Toscana, non si può dire che discenda da una qualsivoglia interpretazione di valori paesaggistici: i vincoli sono stati definiti nell’arco degli ultimi 50 anni a volte solo sulla base del capriccio di un soprintendente, e se hanno avuto qualche effetto è più per mancanza di pressioni speculative che per capacità operativa. Anche per questo è quanto mai opportuno passare dal vincolo alle regole del buon governo estese a tutto il territorio: il riconoscimento dei valori del paesaggio si deve fondare sulla nuova interpretazione strutturale.

Più avanti, il comma 5, ai punti d) ed e) è stato modificato già nella fase delle controdeduzioni per venire incontro alle vivacissime (spesso sguaiate) proteste dell’autunno del 2014 da parte di viticoltori e imprese del marmo. Troviamo così fra i contenuti del piano alcune smagliature, che con il tema del paesaggio hanno ben poco a che vedere (vedi sottolineature[5]): nel primo caso si tratta di affermazioni degne di approfondimento, ma in altra sede (il riferimento alla piena occupazione in un piano del paesaggio?), nel secondo di una risposta alle proteste infondate di alcuni viticoltori. Si tratta di piccoli interventi che però, come si è visto poi, hanno aperto la porta ai vari emendamenti presentati nel dibattito consiliare, senza nessuna coerenza, sia da maggioranza che da opposizione.

In questa sede salteremo l’articolo 2 (Valenza del Piano e natura della disciplina) e l’articolo 3 (Articolazione della disciplina del Piano), che hanno un contenuto istituzionale, ma si può accennare ad un articolo aggiunto ex-novo nella versione controdedotta: articolo 3 bis, Carattere delle disposizioni. Questo articolo si è reso opportuno per chiarire i tanti equivoci sorti dopo l’adozione del Piano nel luglio scorso, quando i commentatori facevano di tutto per confondere i termini e attribuire alla disciplina di piano le intenzioni più perverse (vi ricordate i pascoli al posto delle vigne?). Prima di tutto si precisa che «Il piano contiene obiettivi generali, obiettivi di qualità, obiettivi specifici, direttive, orientamenti, indirizzi per le politiche, prescrizioni, nonché, con riferimento ai beni paesaggistici di cui all’articolo 134 del Codice, specifiche prescrizioni d’uso», e di seguito si danno di ciascun lemma la relativa definizione, giuridicamente coerente.

Ma tornando al primo articolo, va segnalato che quello che è rimasto invariato è l’ultimo comma, il numero 6, che recita: «Il PIT attribuisce al sistema di conoscenze del territorio valore fondante, qualificandolo quale necessaria componente del piano stesso, presupposto per la sua coerente attuazione e per la valutazione nei connessi processi decisionali». Il tema della conoscenza del territorio merita di essere approfondito: basta pensare al ruolo che ha avuto la mobilitazione di energie e di saperi provenienti dalle diverse discipline in tutta la fase di preparazione dei materiali di studio e in particolare della documentazione cartografica. Il Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio è risultato un valido strumento di appoggio all’iniziativa dell’assessorato, lavorando a fianco del personale tecnico in un rapporto di collaborazione assai produttivo. Nessuna consulenza esterna avrebbe potuto fornire un simile apporto di conoscenza e di sperimentazione di nuovi modelli interpretativi e di tecniche rappresentative. Gli uffici di via Pietrapiana sono stati per diversi mesi un luogo di incontro fra discipline diverse, di scambio di esperienze e di collaborazione fra esperti con storie molto variegate, compresa la trentina di borsisti attivati ad hoc per la redazione del Piano.

Una delle critiche più velenose e ingiuste, emerse in questi mesi, contro l’assessore Marson è proprio quella di aver “sprecato” chissà quanto denaro pubblico per finanziare questa attività di ricerca, con pesanti allusioni a presunti vantaggi personali. Nonostante le categoriche risposte in proposito è particolarmente spiacevole che simili insinuazioni vengano riportate dalle cronache anche dopo il voto. Dietro queste allusioni c’è tutta la spocchia di chi si considera l’unico depositario della conoscenza del (proprio) territorio perché magari è stato sindaco di un comune: che cosa ne sapranno questi “professoroni”, spregevole categoria che disturba i sonni di un ceto politico che ormai si vanta della propria ignoranza. Una volta i funzionari di partito venivano perlomeno sottoposti alla scuola quadri…

La migliore risposta tuttavia è data dalla qualità del lavoro svolto per il quadro conoscitivo e interpretativo. Ricordiamo che il Piano è articolato in venti “ambiti” (corrispondenti in genere a regioni storiche) e quattro “invarianti”, ossia nodi della relazione fra le strutture naturali e la storia dell’insediamento umano: nei settori della tutela idrogeologica, delle reti ecologiche, di quelle insediative e infine del paesaggio agrario. Per ogni ambito è stata prodotta una scheda monografica che tratta delle quattro invarianti, corredata di tutta la cartografia necessaria a localizzare e interpretare i fenomeni. Va da sé che nei testi delle schede vengono individuati anche i principali fattori di rischio in ciascuno dei campi, e dunque vengono segnalate quelle che sono state chiamate “criticità”. Le criticità fanno quindi parte del quadro conoscitivo, che è necessariamente un bilancio interpretativo, non hanno bisogno di definizioni: eppure gli emendamenti dei consiglieri hanno sentito il bisogno di intervenire anche sulle schede d’ambito come se la realtà di fatto potesse essere corretta con un colpo di bacchetta.

L’efficacia del Piano del paesaggio si misurerà con la capacità di prevenire non soltanto gli scempi di cui si è tanto parlato, la distruzione sistematica delle Apuane o l’aggressione alle spiagge, ma quelli che negli scorsi anni sono stati segnalati e combattuti dai comitati e dalla Rete: come le lottizzazioni intorno ai centri storici (Monticchiello), o in campagna (Rimigliano) la trasformazione dell’insediamento rurale in resort turistico con relativi campi da golf (Castelfalfi, Bagnaia, Castiglion del Bosco), per non parlare delle infrastrutture progettate senza nessun riguardo per il paesaggio e il contesto territoriale. Se molte di queste battaglie sono state perdute, in tutto o in parte, dobbiamo per lo meno riconoscere che con esse abbiamo contribuito a creare quel clima culturale dal quale ha potuto nascere anche una straordinaria operazione come quella del Piano paesaggistico della Toscana. D’ora in avanti la tutela del territorio saprà su quale strumento fondarsi.

 

[1] 1. Il Piano di Indirizzo Territoriale con valenza di Piano Paesaggistico, da ora in poi definito PIT, persegue la promozione e la realizzazione di uno sviluppo socio-economico sostenibile e durevole e di un uso consapevole del territorio regionale, attraverso la riduzione dell’impegno di suolo, la conservazione, il recupero e la promozione degli aspetti e dei caratteri peculiari della identità sociale, culturale, manifatturiera, agricola e ambientale del territorio, dai quali dipende il valore del paesaggio toscano

[2] 1 bis. In coerenza e in attuazione delle norme di governo del territorio, con riferimento alle condizioni di sostenibilità derivanti dalle invarianti strutturali di cui all’articolo 5 della l.r. 65/2014, il PIT persegue uno sviluppo del territorio rurale e delle città capace di conciliare competitività, qualità ambientale e tutela paesaggistica ai fini di una miglior qualità della vita e del benessere della collettività.

[3] 3. Il PIT, quale strumento di pianificazione con specifica considerazione dei valori paesaggistici, unitamente al riconoscimento, alla gestione, alla salvaguardia, alla valorizzazione e alla riqualificazione del patrimonio territoriale della Regione, persegue la salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e la promozione dei valori paesaggistici coerentemente inseriti nel singoli contesti ambientali.

[4] Per il contenuto del Piano, il comma 5 elenca prima di tutto: a) l’interpretazione della struttura del territorio, b) la definizione di regole di conservazione, di tutela e di trasformazione, c) la definizione di regole per la conservazione e valorizzazione dei beni paesaggistici.

[5] d) la definizione degli indirizzi strategici per lo sviluppo socio-economico del territorio orientandolo alla diversificazione della base produttiva regionale e alla piena occupazione; e ancora: e) le disposizioni relative al territorio rurale in coerenza con i contenuti e con la disciplina contenuta nella l.r.65/2014 e con l’art. 149 del Codice.