Mascalzonate sociali. Come rubare la casa alle famiglie.

images (1)di Paolo Berdini, il manifesto, 3.8.2014.

Per avere presentato una proposta di legge urbanistica che limitava il dominio della rendita immobiliare, il ministro dei lavori pubblici democristiano Fiorentino Sullo, fu sottoposto ad una inaudita campagna diffamatoria orchestrata dalla grande proprietà fondiaria e dai costruttori edili. Fu accusato di voler «togliere la casa agli italiani» e sulla base di questa menzogna la legge fu accantonata per sempre.

Era il 1963 e a distanza di cinquantuno anni si capisce il motivo della violenza della classe dirigente nei suoi confronti: le case degli italiani le volevano vendere loro. Per cinque decenni hanno dominato incontrastati il mercato della casa imponendo prezzi senza controllo; costruito periferie di bruttezza e disordine inimmaginabili nell’Europa occidentale; guadagnato fortune incalcolabili. Nel momento di crisi del loro modello di governo pensano che sia venuto il momento di compiere l’ultimo misfatto.

I tristi nipotini dei protagonisti della diffamazione di Sullo hanno infatti ideato – e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi l’ha prontamente presentata al Parlamento – una proposta di riforma urbanistica che mette per la prima volta nella storia dell’Italia contemporanea a rischio le case delle famiglie italiane.

La proposta, infatti, non dice nulla sui motivi che a partire dal 2007 hanno portato a una diminuzione dei valori immobiliari che nelle aree marginali del paese ha raggiunto il valore del 40% e si attesta sul 20% nelle periferie delle grandi città. Ci sono decine di migliaia di famiglie di lavoratori che si sono indebitate per acquistare una casa e oggi il valore dei loro alloggi è inferiore a quello di acquisto. Il crollo dei valori immobiliari è stato causato dalla crisi economica mondiale ma anche perché nel ventennio dominato dal neoliberismo si è costruito senza regole a ritmi folli e oggi tutti gli istituti di ricerca di settore parlano di almeno un milione di alloggi nuovi invenduti. I valori delle abitazioni sono crollati perché c’è troppo invenduto.


Anche una persona normale – non bisogna essere ministri – comprende che se si costruiscono altre case, il valore degli immobili esistenti diminuirà ancora e le famiglie italiane subiranno un ulteriore impoverimento dopo il taglio degli stipendi, delle pensioni e del welfare. La proposta cosiddetta «Lupi», ma che viene dalla potente associazione della proprietà immobiliare e dai costruttori italiani, è tutta pensata per favorire un’ulteriore costruzione di nuove case senza prendere atto del fallimento dalla politiche seguite fino ad oggi.


Al di là di vuoti richiami alla prospettiva di fermare il consumo di suolo, essa si basa infatti sullo stesso pilastro che ha favorito la cementificazione, e cioè il diritto edificatorio riconosciuto per legge in eterno e – addirittura – afferma nei principi della legge (art. 1) che «ai proprietari di immobili è riconosciuto il diritto di iniziativa (…) anche al fine di garantire il valore degli immobili». Pensano alla grande proprietà, gli altri cittadini non contano.

Ma oltre che con un ulteriore deprezzamento, vogliono rubare realmente la casa agli italiani anche con il recupero del patrimonio edilizio esistente. Nei brevi articoli dedicati a quello che dovrebbe invece essere il pilastro dell’edilizia del futuro, si trova infatti un meccanismo inammissibile e odioso. Si dice che se ci sono proprietari contrari ad iniziative edilizie si potrà agire in loro danno spostandoli in un’altra parte della città senza il diritto a rientrare dopo le opere nella casa in cui sono vissuti.

Così gli speculatori «valorizzano» le loro immense proprietà e i più poveri dovranno sottostare una volta di più alle ragioni del più forte. Una vera mascalzonata sociale.

La proposta di legge Lupi è la dimostrazione amara delle teorie di Luciano Gallino sul trionfo di un revanscismo proprietario di classe che sembra non incontrare limiti. Una conferma delle reali intenzioni del governo Renzi che ha infatti confermato il ministro ex berlusconiano di ferro.

È ora di ricostruire uno schieramento alternativo al liberismo e idee per alimentarlo. A partire da una proposta che azzeri il dominio intollerabile della rendita parassitaria in Italia.

Urbanistica tossica. Lupi sulla città

imagesdi Ilaria Agostini, il manifesto 3.8.2014.

Controriforme. Privatismo selvaggio e zero pianificazione, il ministro ci riprova. Il settore immobiliare ristagna? La nuova versione del ddl, arricchita di autocrazia renziana, punta a rendere edificabile l’intera penisola.

«Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata […] e il suo godimento». L’art. 8 è il distillato della bozza di ddl (Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana) presentata dal ministro Lupi al Maxxi di Roma il 24 luglio scorso. A distanza di nove anni dal ddl 3519/2005 noto come “legge Lupi”, approvato dalla Camera nel Berlusconi III e poi fortunosamente bocciato in Senato col contributo della destra che lo ritenne antagonista alla tuttora vigente legge urbanistica n. 1150/1942, il ministro di rito ambrosiano ci riprova. Nella nuova versione, stagionata e arricchita di autocrazia renziana, restano fermi quei principi di «istituzionalizzazione del “privatismo” in urbanistica» – come ha scritto Sergio Brenna – allora stigmatizzati da urbanisti e giuristi in un volume curato da Maria Cristina Gibelli (La controriforma urbanistica, 2005), ma vi si aggiunge un colpo di reni da crisi globale, scoppiata in seguito proprio alle pesanti speculazioni immobiliari.

SPECULAZIONI IMMOBILIARI

Per Lupi infatti urbanistica coincide con edilizia e la riforma è dunque finalizzata a trovare linfa per il settore immobiliare, stagnante. La soluzione è semplice: rendere virtualmente edificabile l’intera penisola, per rafforzare la rendita fondiaria attraverso l’istituzione dei diritti edificatori «trasferibili e utilizzabili […] tra aree di proprietà pubblica e privata, e liberamente commerciabili» (art. 12). Il «registro dei diritti edificatori» sancisce la finanziarizzazione della disciplina: si profila uno scenario di urbanistica drogata, dove perequazione, compensazione, premialità ed esproprio (sì, esproprio, cfr. art. 11, c. 2) sono ripagati con titoli tossici come in un gioco di borsa. Tutto il contrario della pianificazione.

La proposta legislativa fluttua nel completo distacco dalla concretezza fisica del territorio e dell’ambiente urbano che tenta di governare; lo slittamento dall’oggetto della pianificazione (città e territorio) alle procedure, genera, in sede di presentazione, affermazioni eversive disciplinarmente, politicamente e socialmente, tra cui spicca, per duplice grossolana aporia, «la fiscalità immobiliare come leva flessibile [sic] del governo del territorio». Ma lungo l’articolato trapela la vera passione del ministro: le grandi opere. L’istituenda DQT, Direttiva Quadro Territoriale, quinquennale e direttamente approvata dal presidente del consiglio dei ministri (art. 5), è configurata come un piano nazionale delle infrastrutture (affinché non ci si debba più confrontare con ponti sullo Stretto «proclamati e mai realizzati») che sovverte l’ordine delle cose, subordinando il paesaggio al governo del territorio, in contrasto col Codice dei beni culturali.

La pianificazione comunale (che si confronterà con la DQ Regionale) sarà suddivisa tra parte programmatoria «a efficacia conoscitiva e ricognitiva», e parte operativa, dove «il cambio di destinazione d’uso […] non richiede autorizzazione» (art. 7, c. 10, che prosegue pudìco: «laddove la nuova destinazione d’uso non necessiti di ulteriori dotazioni territoriali rispetto a quelle esistenti»). Comunque sia, il piano comunale è travolto e annientato dagli «accordi urbanistici» (art. 15), ispirati agli strumenti criminogeni di contrattazione pubblico/privato che tanto lustro hanno dato all’urbanistica milanese e romana.

La Lupi II punta sul «rinnovo urbano» realizzabile senza regola alcuna, «anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa previo accordo urbanistico» (art. 17). Assenti in tutto l’articolato i centri storici – privi di tutela come ormai è moda (si veda il piano strutturale fiorentino) – malgrado Vezio De Lucia, già a fronte del ddl 2005, avesse denunciato lo scorporo della tutela dall’urbanistica che si riduceva così «a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio». Assenza gravata da un sentore di deportazioni di regime: proprietari o locatari degli immobili soggetti al rinnovo urbano (fino a demolizione e ricostruzione) saranno ospitati in alloggi di nuova costruzione «per esigenze temporanee o definitive» (art. 17, c. 10, corsivo nostro). Questa la prospettiva: nuova edificazione provvisoria o definitiva nelle periferie, espulsione dei ceti sociali svantaggiati dalle zone urbane consolidate, o addirittura centrali, che diventano nuove aree di speculazione (ora che nella prima periferia anche le aree industriali dismesse diventano merce rara).

LE CONQUISTE SMANTELLATE

Esemplare la pervicacia esercitata nello smantellamento delle conquiste degli anni ‘60-‘70. Un esempio per tutti: la disapplicazione del dm 1444/1968 sugli standard urbanistici, che attribuisce ad ogni cittadino italiano, dalla Calabria al Veneto, una quantità minima di servizi e attrezzature. Il principio cartesiano di eguaglianza peninsulare verrebbe ora spazzato via e sostituito da «dotazioni territoriali», calcolate regione per regione e il cui soddisfacimento sarebbe garantito anche dai soggetti privati.

Una riforma urbanistica nazionale, anziché riassumere in un unico testo le peggiori esperienze urbanistiche italiane del dopo Bassanini (Roma, Milano, Firenze etc.), avrebbe potuto (anzi, dovuto) sussumere – per estenderne i benefici all’intero paese – gli esempi positivi, che pure esistono nel panorama legislativo regionale. A titolo d’esempio il ddl presentato dall’assessore Anna Marson al consiglio toscano, contenente una declinazione della “linea rossa”, auspicata dal dibattito disciplinare internazionale, da tracciare tra città e campagna. Ma anche il ribaltamento del paradigma territoriale da “risorsa” o “neutro supporto”, a “patrimonio” – ossia, da valore di scambio a valore d’uso – gioverebbe alla messa a punto di uno strumento sinceramente vòlto alla limitazione del consumo del suolo fertile. Misure cui potrebbe aggiungersi il ripristino dell’art. 12 della Bucalossi (L. 10/1977) che legava i proventi delle concessioni edificatorie alle opere di urbanizzazione, al risanamento dei centri storici, all’acquisizione delle aree da espropriare, e il cui travaso nelle spese ordinarie dei comuni è stato riconosciuto come principale causa dell’alluvione cementizia dell’ultimo quindicennio.

Siamo dunque di fronte alla bozza di un ddl bifronte, alfiere da una parte del liberismo senza freni in difesa della proprietà privata, e dall’altra di un autoritarismo statalista – o autocrazia? – che anticipa il riformando art. 117 della Costituzione secondo il quale le norme generali sul governo del territorio tornerebbero ad essere materia di «esclusiva competenza» dello stato. «8100 regolamenti edilizi comunali – affermava Lupi – non sono un segno identitario, ma un elemento di confusione». E al ministro, in luogo del Piccolo principe le cui citazioni hanno gettato nell’imbarazzo gli astanti di media cultura alla presentazione romana, proponiamo un’altra più edificante lettura, sul rapporto tra libertà di azione e vincolo: Lo sguardo da lontano di Claude Lévi-Strauss. «Ritengo – chiosava l’antropologo – che la libertà, per avere un senso e un contenuto, non debba, non possa, esercitarsi nel vuoto».