TAV: «Referendum, referendum!»

ovvero l’ennesimo inganno

Il TAV non smette di riservare sorprese. L’ultima è l’evocazione da parte della strana coppia (o forse neppur tanto) Chiamparino-Salvini di un referendum, àncora di salvezza per il governatore del Piemonte, alla ricerca di un’improbabile conferma nelle elezioni di maggio, e per il ministro dell’interno, in evidente difficoltà a trovare una via d’uscita dal contratto di governo (che, come noto, contiene l’impegno «a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia»). Ipotesi a dir poco azzardata e guardata con diffidenza dagli altri pasdaran della Torino Lione, ma i nostri eroi – giocolieri delle parole sganciate dai fatti – non demordono.

Esaminiamo, dunque, la curiosa proposta. Con una premessa. I soli a non avere timore dei referendum siamo proprio noi NO Tav. Se ci sarà lo vinceremo: come è accaduto per il nucleare, per l’acqua pubblica, per la Costituzione (tutti referendum in cui ai blocchi di partenza ci davano perdenti senza neppure confronto e che abbiamo vinto alla grande). Anche questa volta raggiungeremmo lo stesso risultato (ed è forse questa la ragione per cui sono così tiepidi industriali e “madamine” che, guardando ai potenziali profitti, preferiscono non correre rischi…).

Dunque nessun timore. E tuttavia quando si avviano dei meccanismi istituzionali delicati come delle consultazioni popolari bisognerebbe almeno sapere di che cosa si parla. Ed è proprio ciò che non sanno Chiamparino e Salvini. Vediamo perché.

Primo. Dire referendum non significa nulla se non chiarisce di che tipo di referendum si tratta e chi sarà chiamato a parteciparvi. Cominciamo dal tipo di referendum. A livello nazionale la Costituzione ne conosce tre: il referendum abrogativo di leggi nazionali (escluse quelle tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione a ratificare tratta internazionali) previsto dall’art. 75 e praticato più frequentemente nel nostro Paese; quello sulle leggi costituzionali o di revisione costituzionale previsto dall’art. 138 (a cui si è fatto ricorso da ultimo il 4 dicembre 2016); quello previsto dall’art. 132 concernente la fusione o la costituzione di nuove Regioni ovvero il passaggio di Comuni o Provincie da una ad altra Regione. A livello regionale provvedono i singoli statuti e, per quanto qui interessa, quello della Regione Piemonte, che prevede, a sua volta, il referendum abrogativo di leggi, regolamenti o provvedimenti amministrativi regionali (artt. 78 e 80) e quello consultivo, avente ad oggetto «iniziative legislative o provvedimenti amministrativi, nei limiti e secondo modalità fissate con legge» (previsto in linea generale dall’art. 83 ma disciplinato solo con riferimento «alla istituzione di nuovi Comuni, alla modificazione delle circoscrizioni e denominazioni comunali, di cui all’articolo 133, comma 2, della Costituzione»: art. 33 legge 16 gennaio 1973, n. 4 e successive modifiche). È di tutta evidenza che nessuno di questi referendum è applicabile al caso di specie. Dunque, per procedervi occorrerebbe una legge ad hoc di carattere nazionale, come la legge costituzionale n. 2 del 3 aprile 1989 (che autorizzò l’unico referendum consultivo nazionale intervenuto nella storia repubblicana avente ad oggetto l’attribuzione di un mandato costituente all’eligendo Parlamento europeo) ovvero – stante la mancanza di regolamentazione ad hoc nello statuto del Piemonte (a differenza, per esempio, di quello della Lombardia) – una apposita legge regionale (analoga alla n. 15 del 19 giugno 2014 della Regione Veneto, avente ad oggetto «referendum consultivo sull’autonomia del Veneto»). Essendo evidente la mancanza dei tempi tecnici per l’approvazione di una di tali leggi e la successiva indizione del referendum prima delle elezioni europee e regionali del Piemonte del 26 maggio, è chiaro che si sta parlando del nulla (ché – a tacer d’altro – nessuno è in grado di prevedere l’assetto del Governo nazionale e di quello regionale dopo tali elezioni). E parlare del nulla è solo un modo per ingannare i cittadini.

Secondo. Il governatore del Piemonte peraltro, evidentemente consapevole dell’impraticabilità (almeno attuale) di quanto va dicendo, continua ad usare il termine “referendum” ma, citando l’art. 86 dello statuto, mostra di riferirsi a un altro e diverso istituto e cioè la «consultazione di particolari categorie o settori della popolazione su provvedimenti di loro interesse», prevista, appunto, da tale norma. Anche qui non ci siamo, ché il problema dei tempi non cambia rispetto al referendum. Correttezza vorrebbe che una consultazione popolare siffatta fosse preceduta – come confermato dalle motivazioni del parere n. 4654/1998 del Consiglio di Stato, rilasciato in tema di referendum comunali – da una legge regionale che ne disciplini in termini generali modalità e tempi di indizione, procedimento, condizioni di validità e quorum, finanziamento e quant’altro (se non altro ad evitare che ogni consultazione si svolga con regole diverse, decise di volta in volta dalla maggioranza contingente). Ma anche se si ritenesse sufficiente una deliberazione del Consiglio regionale non si vede come, nell’attuale contesto politico, essa potrebbe intervenire nei meno di due mesi “liberi” che ci separano dalla convocazione dei comizi elettorali in vista del voto del 26 maggio. Ciò anche a prescindere del fatto (pur decisivo) che il citato art. 86 dello Statuto non autorizza una consultazione della intera popolazione piemontese ma soltanto quella «di particolari categorie o settori della popolazione». Dunque, ancora una volta si parla del nulla. Un nulla non suscettibile di essere riempito dalla possibilità teorica di un referendum cittadino torinese o di una pluralità di referendum nei comuni della Val Susa il cui regolamento consente tale forma di partecipazione: non solo perché Chiamparino e Salvini, nonostante le loro ambizioni di grandeur, non hanno anche i poteri degli amministratori comunali ma soprattutto per l’eccedenza della materia, anche nell’accezione più ampia, rispetto alla competenza dei Comuni singolarmente considerati, con conseguenti forti dubbi sull’ammissibilità (giuridica e politica) di referendum siffatti.

Terzo. Ci sono poi alcune questioni più specifiche ma non meno importanti. Due in particolare. Anzitutto: di che referendum/consultazione di parla? Nonostante le chiassose esternazioni del presidente Chiamparino che invoca una consultazione regionale a cui dovrebbero accodarsi le altre regioni del Nord (esternazioni a cui ha subito risposto positivamente il presidente della Liguria Toti, evidentemente non pago del crollo della più grande opera genovese), le ipotesi possibili, ai sensi della normativa vigente, sono solo due: o una chiamata alla urne di tutti i cittadini italiani (interessati all’opera siccome contribuenti) o quella dei residenti nel territorio su cui l’opera dovrebbe insistere («categoria di popolazione» interessata ai sensi dell’art. 86 dello statuto della Regione Piemonte dato che l’opera ne modificherebbe le condizioni di vita e l’habitat). Quale interesse infatti, diverso da tutti gli altri cittadini, avrebbero i residenti nella provincia di Cuneo o, addirittura, della Liguria? E poi: perché mai il referendum/consultazione si dovrebbe fare – come sostengono all’unisono Chiamparino e Salvini – solo nel caso in cui la prospettiva conseguente alle analisi tecniche in corso fosse quella della rinuncia all’opera e non anche nell’ipotesi in cui il responso degli esperti fosse favorevole alla prosecuzione dei lavori? Non trattandosi un referendum abrogativo ma di una consultazione tesa a conoscere il parere dei cittadini è evidente che, se esso viene ritenuto uno strumento di democrazia, esso deve valere in entrambi i casi (e non solo come rivincita o come estremo tentativo di evitare un esito sgradito).

È tempo di tirare le fila del ragionamento. Evocare oggi il referendum serve solo a sollevare un polverone per condizionare o ritardare le decisioni politiche (che, invece, dovrebbero intervenire al più presto) e per fare campagna elettorale (per le europee o per le regionali): non servirà – almeno al secondo fine – ma la disperazione e la mancanza di argomenti non lasciano alternative. Se poi, a elezioni avvenute, qualcuno ancora lo vorrà, si parlerà allora, più concretamente di oggi, di referendum (nazionale o territoriale che sia). Nell’attuale sistema normativo non siamo noi cittadini No Tav a poterlo richiedere ma solo la maggioranza del Consiglio regionale o del Parlamento (almeno a giudicare dall’unico precedente nazionale in materia). Non potremo chiederlo ma – se ci sarà – sapremo vincerlo.