La malattia delle grandi opere

mg_110223_hit02_art12di Paolo Berdini, Il Manifesto, 15 dicembre.

Di fronte alla crisi economica che viviamo, non c’è serio osservatore economico che non affermi che le risorse pubbliche devono essere utilizzate con politiche di medio e lungo periodo. Non servono medicine estemporanee, specie se hanno dimostrato il fallimento.

La cultura delle grandi opere inaugurata da Berlusconi e Tremonti nel 2001 con la Legge obiettivo ha vuotato le casse dello Stato e non ha dato una seria prospettiva di sviluppo al paese. 

Un fiume di soldi affidato al famelico cartello delle grandi imprese — cooperative comprese — che non ha fatto aumentare di un millimetro l’efficienza complessiva del sistema infrastrutturale e ha depredato le casse dello Stato.

A questo madornale errore di prospettiva si è aggiunto il malaffare alimentato dalla mancanza di regole e di controlli. Dall’affidamento dei lavori ogni ruolo dello Stato scompare: Corte dei Conti ed autorità degli appalti continuano a denunciare che le grandi opere vengono aggiudicate sulla base di progetti iniziali imprecisi e vaghi. Ci pensano poi un serie interminabile di varianti in corso d’opera (26 solo per la metropolitana «C» di Roma), arbitrati per valutare gli inevitabili contenziosi e finanziare studi legali amici. Gli scandali del Mose di Venezia, dell’Expo di Milano, di Infrastrutture lombarde, dell’attraversamento ferroviario di Firenze, sono tutte vicende che si collocano in questo quadro. Ma proprio il caso della metro «C» di Roma apre la terza — tragica — conseguenza della cultura delle grandi opere e della scomparsa del ruolo dello Stato: l’intreccio tra imprese e malavita. Nell’inchiesta romana è emerso, come era stato da tempo denunciato da Report, che imprese in mano alla malavita partecipavano all’appalto.

Con lo sbocca Italia di Renzi e Lupi si continua su questa strada. Al cartello di imprese che ruota intorno a Vito Bonsignore, sponsor dell’inutile autostrada Orte Ravenna Mestre ed esponente del Ncd di Alfano, si vogliono affidare 6 miliardi di euro. La Tav è sempre ai primi posti dello spreco di denaro pubblico. Di recente anche alcuni sostenitori dell’utilità dell’opera hanno manifestato dubbi sul preventivo dell’opera, ma sono stati zittiti: si deve andare avanti. Il ministro per le infrastrutture Lupi pochi giorni fa ha riaperto addirittura la questione del ponte sullo Stretto di Messina: sa bene che l’opera non è fattibile ma l’importante è inviare messaggi inequivocabili al ristretto numero di potenti imprese.

Forse Renzi ha sofferto l’attivismo del ministro ciellino e ieri è riuscito a superare se stesso. Ad una Roma che sta affondando nel fango di un inchiesta che ha fatto emergere il controllo degli appalti pubblici da parte della malavita organizzata, ha promesso altri sei miliardi di euro da spendere nella realizzazione delle Olimpiadi del 2024, l’apoteosi della discrezionalità. Uno degli uomini più entusiasti dell’annuncio è stato Malagò, che di deroghe deve intendersi abbastanza avendo partecipato alla scandalosa vicenda dei mondiali di nuoto del 2009. Il secondo in ordine di entusiasmo è il sindaco Marino che proprio oggi porterà in un consiglio comunale l’approvazione della più gigantesca
deroga urbanistica degli ultimi dieci anni: un milione di metri cubi in aperta campagna regalati a James Pallotta con la scusa del nuovo stadio di calcio delle Roma.

Invece di definire politiche di rilancio industriale, di mettere in sicurezza del territorio che frana ad ogni pioggia e ricostruire regole, chi governa il paese continua a perseguire l’effimero e perpetuare il porto delle nebbie. Tanto saranno le famiglie italiane a pagare. Con l’azione di Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, quale presidente dell’Eur sono stati sperperati centinaia di milioni di euro in errori e malaffare. Con l’ipotesi delle Olimpiadi del 2024, il verminaio che sta distruggendo il paese viene rilanciato.