Parcheggi interrati a Firenze:

manila città storica nella cornice del disastro,

di Ilaria Agostini.

Intervento all’incontro Parcheggi interrati nella città storica: le ragioni del no, organizzato da Comitato Oltrarnofuturo e Comitato per piazza Brunelleschi, con la collaborazione della ReTe dei comitati per la difesa del territorio e della lista consiliare perUnaltracittà, Fienze, 13 giugno 2013.

Il Piano Strutturale del Comune di Firenze, confezionato e approvato nel 2011 dalla giunta del sindaco mediatico, è un atto finalizzato all’incremento della rete viaria e del trasporto privato su gomma. Scelta che si manifesta con evidenza nella prima frase dedicata alla città storica, della quale peraltro si tace fino alla pagina 45 del documento di avvio del PS, dove, nello sconforto del lettore, si trova la seguente dichiarazione: «La prima azione da mettere in campo, per il centro storico, è promuovere la realizzazione di parcheggi interrati», nel centro storico stesso, ça va sans dire. Nelle norme tecniche di attuazione della città storica (UTOE 12) sono individuati ben nove siti – interni alla zona a traffico limitato o ad essa immediatamente prossimi – destinabili alla sosta in silos ipogei: piazza del Carmine; costa San Giorgio; lungarno della Zecca Vecchia; piazza dei Ciompi; piazza Strozzi; piazza Brunelleschi; piazza San Marco; piazza Indipendenza; piazza Ognissanti (cfr. NTA del PS, art. 35). Per la costruzione dei parcheggi interrati (da considerare a pieno titolo volumi edilizi, nonostante gli slogan del sindaco pubblicitario) il Comune si affiderà per lunga e infelice consuetudine all’istituto del project financing, strumento già dimostratosi non orientato alla pubblica utilità (si noti che, estrema perversione, la normativa vigente prevede che l’opera pubblica realizzata con project financing può essere ceduta al privato che la ha realizzata e gestita). La privatizzazione del sottosuolo (e il connesso movimento terra che, detto per inciso, è terra fertile per la camorra) si sta dimostrando – anche a livello nazionale – la nuova frontiera della speculazione e della bolla edilizia: basti pensare al tunnel TAV che sottoattraverserà viali e fortezza da Basso, alla linea di metropolitana sotto piazza del Duomo e al “tubone” pedecollinare per il traffico su gomma, entrambi previsti dal PS; non mancano esempi sul fronte dell’edilizia privata, dalle cantine vinicole patinate ai supermercati ipogei.

Al banchetto infrastrutturale, imbandito dal piano regolatore per la leccardìa dei costruttori, i privati spizzicheranno qua e là, fuori da un qualsiasi progetto organico di mobilità e di sosta improntato alla pubblica necessità, e fuori da qualsiasi bisogno espresso dalla cittadinanza.

I parcheggi interrati nella città storica sono da evitare per più ordini di ragioni, anche qualora fossero realizzati con meccanismi finanziari e concessòri trasparenti, e secondo pratiche pianificatorie civilmente condivise. Innanzitutto dal punto di vista della tutela degli insediamenti di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale, che è un obbligo costituzionale. Le piazze storiche, di proprietà collettiva, sono a tutti gli effetti patrimonio monumentale nella loro consistenza aerea, subaerea e ipogea: la conversione della loro superficie lastricata in solaio cementizio (segnato dalle grate di aerazione) del sottostante garage non deve essere consentita. In secondo luogo, è convincimento diffuso globalmente che i centri urbani debbano essere liberati dalla morsa del traffico privato su gomma e, possibilmente, dalle automobili medesime: un parcheggio interrato si limita invece a nascondere sotto il tappeto parte delle automobili in sosta, attraendo contemporaneamente nuovi volumi di traffico non residente. La gestione in project financing comporta infatti tariffe orarie elevate destinate all’uso veloce e, non favorendo la sosta di chi abita nel quartiere, di fatto contribuisce al processo in atto di gentrification ed estromissione dei residenti. Dal punto di vista tecnico-urbanistico, infine, si ritiene che sia da valutare con oculatezza l’opportunità di scavare un invaso profondo non meno di dieci metri in aree a rischio idraulico, quali sono tutte le piazze del centro fiorentino. Chi assicura infatti, nel caso di specie, l’«assenza di pericolo per le persone e i beni» e l’inesistenza di un «incremento dei rischi e della pericolosità idraulica al contorno», come richiesto dall’art. 2 della legge regionale 21/2012 redatta in risposta alle alluvioni disastrose in Lunigiana, legge che impedisce di fatto la nuova edificazione nelle aree a “rischio idraulico molto elevato”? La costruzione di un’opera edile ipogea in area a “rischio idraulico elevato” e contigua al letto del fiume, come piazza del Carmine, pone senza dubbio problemi di incolumità degli utenti, dei cittadini e dei beni. Il parcheggio nel piazzale delle Cascine – sinora non rammentato, ma in progetto – si trova poi in area di “rischio idraulico molto elevato” (cfr. http://geodataserver2.adbarno.it/pai%5Fpi10k/), ed è dunque illegittimo ai sensi della citata legge.

L’assenza di un piano particolareggiato per la città storica, assenza lamentata da anni da tecnici e cittadini ma ostentata per amor di modernità dagli amministratori, si accoda alla parabola discendente della conservazione dei centri storici peninsulari, che inanella le perle dell’Aquila e del piano di ricostruzione post-sisma emiliano, dove la LR 16/2012 affida ai tecnici la sorte degli edifici storici non vincolati, destituendo la pianificazione comunale dall’esercizio della tutela. Così, a Firenze, da vari decenni si opera nel tessuto storico con una sommatoria di interventi mal pianificati e mal programmati, laddove sarebbe necessario invece agire con i metodi del restauro e del recupero, in conformità con la Carta di Gubbio (1960) che riconosceva il valore monumentale dell’insieme degli elementi della città storica. Trascuriamo in questa sede la qualità di tali interventi passati nel silenzio metà incapace, metà impotente, della Soprintendenza fiorentina.

Ma cosa sta succedendo nel centro città interno alla cerchia muraria trecentesca? Esiste innanzitutto un “centro del centro”, il “salotto buono”, la “vetrina” o “bomboniera” a cui l’amministrazione del sindaco televisivo dedica un’attenzione maniacale con interventi sporadici e d’effetto – non richiesti né voluti dalla popolazione, tantomeno discussi in consiglio comunale – che consentono al primo cittadino l’approdo tanto trionfale quanto autistico sui media intercontinentali. Da anni la città antica comprendente il quadrilatero del castrum romano è stata disertata dai cittadini, sostituiti dai turisti, dagli eventi, dalla vita eterodiretta. Scenario delle notti bianche (quando i cittadini vorrebbero invece notti normali) e della grande produzione mediatica industriale, il “centro del centro” è stato, nell’ultima legislatura, ulteriormente isolato dal resto della città. Vi contribuiscono pesantemente: l’allontanamento dell’anagrafe da Palazzo Vecchio (sostituita da un improbabile asilo “aziendale”); la pedonalizzazione di piazza del Duomo (privatizzata poi dalle grandi terrazze di bar che arrivano a lambire la colonna di San Zanobi) e la deviazione dei percorsi degli autobus urbani sull’asse San Marco-Indipendenza, oggi sovraccarico; l’assenza di un sistema di trasporto pubblico con bus di piccola taglia adatti al tessuto urbano storico; il paventato sfratto del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux da palazzo Strozzi etc.

Dall’altra parte, la sorte dei quartieri storici limitrofi alla città antica prende due strade diverse: Sant’Ambrogio e Oltrarno si trovano in una fase di accelerazione dei processi di trasformazione del tessuto sociale, di sostituzione degli abitanti ed estromissione degli artigiani (i parcheggi interrati fanno parte del menabò). In via Palazzuolo e in San Lorenzo, invece, regna l’assenza di cura e manutenzione ordinaria, al pari di quanto avviene nelle periferie più distanti; il mancato recupero del complesso di Sant’Orsola ne è un esempio paradigmatico. Tutt’al più qualche intervento è mirato alla “sicurezza” (illuminazione da stadio nei vicoli; asfaltatura dei selciati sconnessi).

Questo scenario sconfortante potrebbe essere riscattato da una politica assennata sui grandi edifici storici in dismissione o già vuoti, alcuni dei quali in alienazione, che sarebbero naturalmente vocati ai servizi per la cittadinanza, a luoghi deputati alla socialità, ad atelier di produzione artigianale, ma anche a residenze sociali, richieste con sempre maggior urgenza dal Movimento di lotta per la casa (sulla residenza nei centri storici gli esempi non mancherebbero: Bologna, Saint-Macaire in Aquitania etc.). Ma, per quanto riguarda le previsioni di piano, si naviga a vista. Sul tema, che costituirebbe il fulcro del disegno dell’assetto urbano futuro, il documento d’avvio del Regolamento urbanistico (attualmente in elaborazione) con inopportuna ingenuità si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Chi, se non i privati, sembra essere la risposta. Gli edifici, privi nel piano strutturale di linee guida per la loro trasformazione, sono molti e di pregio, anche per localizzazione: il tribunale di San Firenze (l’ex convento dei Filippini, dietro Palazzo Vecchio), la corte d’Assise (progettata da Bernardo Buontalenti), il teatro Comunale, la scuola dei Carabinieri nei locali storici del convento di Santa Maria Novella, il Distretto militare nel convento di Santo Spirito, l’ex Ospedale militare in via San Gallo, la scuola di Sanità militare nel convento del Maglio in via Venezia, la sede allievi ufficiali in costa San Giorgio, l’ex distaccamento militare a Monte Uliveto, per citare solo i casi più illustri. Ancora un banchetto imbandito stavolta per università americane e multinazionali attratte dal marchio Firenze (il «brand fiorentino» troppo spesso richiamato dal sindaco globalizzato).

Occorrerebbe invece che le azioni da avviare sulla città storica si inquadrassero nella dimensione della cura, delle pratiche positive, orientate a ciò che Gandhi definiva autonomia di villaggio: autonomia nella produzione e riproduzione di risorse (alimentari, energetiche, culturali etc.) e di saper fare, di riappropriazione dei saperi. Su quest’ultimo punto, la città può offrire molto in termini di lavoro di prossimità e di alta manualità. Scalpellini per il ripristino e manutenzione dei selciati; muratori, restauratori, falegnami, imbianchini per l’edilizia storica nonché produzione di atlanti e guide per il suo recupero; fontanieri (in una città così poco generosa d’acque, fontanelli del sindaco a parte); artigiani di qualità, che esercitano a scala familiare la produzione manuale, secondo modelli e tecniche tradizionali, attualmente soffocati dagli affitti e dalla normativa che li equipara a industrie di piccola (ma mica tanto) dimensione. Chi scrive ritiene necessario e possibile prefigurare strategie che prevedano l’istituzione di uno status speciale per l’artigiano della città storica che consenta l’affrancamento dal vigente sistema contributivo e previdenziale, e la liberazione dalla rendita privata attraverso l’istituzione di appositi locali pubblici destinati a laboratori artigiani, nonché attraverso la libertà dell’apprendistato. La diffusione del piccolo commercio, delle sale di teatro e cinema di quartiere sarebbero favorite da una riduzione del gigantismo periferizzante (ipermercati, multisale, scaffali informatici). Per attuare queste poche cose è necessario un grande cambiamento da parte di amministrazioni – locali e centrali – e cittadinanza, nel senso della resistenza al liberismo e all’individualismo imperanti. Solo così si potranno perseguire e mettere in pratica magnificenza civile e pubblica felicità, obbiettivo di una buona politica.

 

Lasciateci lavorare, che siamo noi i veri difensori del paesaggio!

1280022-cosimi_foto_noviCosì il Sindaco di Livorno, presidente dell’ANCI toscana.

Di Paolo Baldeschi, 24/6/2013

Due documenti complementari e organici a un unico pensiero. Il primo è il documento dell’assemblea dei Comuni Toscani (ANCI sulla Legge 1/05) del 7 marzo 2013, fortemente critico rispetto alla bozza di revisione della legge vigente di governo del territorio (LR/ 1/2005). Il secondo è una lettera inviata l’11 giugno al Corriere fiorentino dal presidente dell’Anci Toscana Alessandro Cosimi, Sindaco di Livorno. Partiamo da questa: Cosimi nega che gli oneri di urbanizzazione derivanti dall’uso e (abuso) edilizio abbiano arricchito i Comuni. E aggiunge: “ampliando il discorso oltre la questione degli oneri di urbanizzazione, si fa un gran parlare di sindaci subalterni alla cultura del mattone. Come prima cosa mi chiedo: al di là del clamore mediatico e di una serie di denunce peraltro ancora tutte da dimostrare, dove sono gli episodi veri? Quali le grandi «ruberie» di cui i sindaci toscani si sarebbero resi protagonisti? È arrivato il momento anche di dire basta all’idea che i Comuni vogliano distruggere il paesaggio. Che interesse avrebbero i sindaci a rovinare il paesaggio in cui vivono e che amministrano con tanta passione e spesso rimettendoci del loro? Chi meglio di chi sta su un territorio può sapere ciò di cui quel territorio ha bisogno e può avere un maggiore interesse a tutelarlo?”

Si potrebbe replicare che arrivato il momento non di dire basta all’idea che “i sindaci vogliano distruggere il paesaggio”, ma al fatto che gli amministratori locali lo distruggano nelle loro politiche reali e che le malefatte di Campi Bisenzio, Casole d’Elsa, Montespertoli, Lucca, tanto per citarne alcune, sono tutt’altro che da dimostrare. Ma non è questo il punto. Nessuno pensa che i sindaci si arricchiscano in proprio con gli oneri di urbanizzazione: la corruzione, quando c’è (e c’è), segue ben altre strade. Ma negare un falso problema (il presunto arricchimento dei sindaci) serve per introdurre retoricamente l’argomento principale. “Che interesse avrebbero i sindaci a rovinare il paesaggio? Nessuno!” E poiché non hanno alcun interesse ne segue che non lo rovinano, anzi ci rimettono di tasca loro (come, non si dice). Il difetto di questa retorica è che si basa su assunti auto dichiarati come veri e non sulla realtà. La realtà dice che  molti Comuni toscani anche negli ultimi anni hanno incoraggiato il consumo di suolo e, soprattutto di ‘paesaggio’ e solo ora quando il mercato non tira assumono atteggiamenti virtuosi. Che hanno diffusamente autorizzato nuove espansioni, (vedi ad esempio, la costa, da Follonica a San Vincenzo, a Castiglion della Pescaia, a Campiglia Marittima, situazioni che il presidente dell’Anci dovrebbe conoscere); che hanno una cultura subalterna al capitalismo del mattone, o, meglio, del cemento, considerato come fattore principe di sviluppo; che la maggior parte dei degli enti locali ha consumato nel loro primo Regolamento Urbanistico le previsioni che nei Piani Strutturali avrebbero dovuto soddisfare un fabbisogno pluridecennale (e ora si trovano con le case invendute). Ma il punto d’arrivo, l’obiettivo finale, è un altro: è il non cambiamento, è la difesa della attuale situazione normativa in cui i Comuni fanno e disfanno il territorio a loro piacimento (o ‘lo manipolano’, come dice Cosimi a proposito del paesaggio). A sostegno, secondo il Sindaco di Livorno “una norma costituzionale, ulteriormente rafforzata con il vigente Titolo V che ha posto sullo stesso piano gli enti della Repubblica: lo Stato, le Regioni, i Comuni”. E qui si tratta di un vero e proprio travisamento giuridico, dal momento che illustri costituzionalisti hanno ampiamente argomentato che altra cosa è un disegno che assegni a ciascun ente livelli politici complementari e relative autonomie, altra cosa pretendere (su una linea perseguita dalla sola Toscana) che la riforma del titolo V significhi una totale equipollenza amministrativa di Regione, Province Comuni.

Ma questo, si è detto, è il vero e proprio obiettivo: lasciateci lavorare, non ci siamo personalmente arricchiti (ci mancherebbe altro). Ed è – leggendo il documento del 7 marzo – ” il primo punto, per Anci ed UNCEM non negoziabile: nella nuova legge deve essere confermato l’attuale assetto dei rapporti tra gli enti territoriali, Comuni, Province, Regione. Ruoli, responsabilità, competenze ed interrelazioni devono restare immutati, sia formalmente che (soprattutto) sostanzialmente” e “a tal proposito non appare né condivisibile né opportuna l’introduzione del controllo di legittimità sulla pianificazione comunale previsto (dalla legge di governo del territorio rivista)”. Invece di assumere un atteggiamento costruttivo e di leale collaborazione, basato su dati ed esperienze reali si è preferito, in entrambi i documenti, negare l’evidenza Il tutto scritto in un linguaggio penosamente infarcito di luoghi comuni e di frasi fatte. A dimostrare che il dramma della politica toscana e italiana è anche culturale.

Rassegna Stampa

10 – 19 giugno 2013

Regione: Le aperture del presidente ai movimenti e il dibattito precongressuale del PD

Firenze: dopo la sentenza del Consiglio di Stato che annulla i vincoli culturali per i palazzi del centro storico

La voce dei cittadini

SEGNALAZIONI

Un Osservatorio sulle buone pratiche

sdt_2 copydi autosostenibilità locale.

Di Alberto Magnaghi.

La Società dei territorialisti e delle territorialiste  (www.societadeiterritorialisti.it) ha avviato la costruzione di un Osservatorio con obiettivi molto vicini a quelli proposti dalla rubrica de Il Manifesto: denotare un’altra geografia che, procedendo  da piccole esperienze locali, ma integrate e operanti nella trasformazione dei  luoghi, consenta di costruire un’immagine di un territorio in auto trasformazione nel quale società locali, associazioni, forme articolate di cittadinanza attiva, in molti casi  insieme ai i loro municipi, attivano percorsi concreti  di “ritorno al territorio” e di “conversione ecologica dell’economia locale”, attraverso la  riattivazione di saperi contestuali per la valorizzazione dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici, sperimentando forme di produzione sociale  fondate sul riconoscimento del territorio come bene comune.

Si tratta dunque di intercettare e dare visibilità alle pratiche e ai saperi diffusi “invisibili” (o visibili a livello molto circoscritto), per costruire una nuova geografia sociopolitica che denoti queste esperienze, nella ipotesi che già oggi costituiscano un tessuto sociale rilevante, ma che incidano molto poco sugli indirizzi politico-istituzionali.

E’ strategicamente alternativo questo mondo in costruzione, poco visibile e poco raccontato dai media, rispetto agli orizzonti  della politica che ci parla ogni giorno ossessivamente di crescita e di bollettini finanziari come antidoto alla crisi, come se nulla fosse successo? O è semplicemente il frutto dell’arte di arrangiarsi nella crisi, come testimoniato dalla vertiginosa crescita degli orti urbani e periurbani autogestiti  nelle grandi città? O tutte due le cose?  L’interpretazione è aperta, ma una cosa è certa: questi mondi locali  ci parlano d’altro, di altri rapporti fra le persone, con la terra, con l’ambiente, con il patrimonio territoriale e culturale, con il paesaggio, con la produzione; ci parlano di nuovi beni da produrre, del modo di produrli, di nuove forme della comunità e della “coscienza del suo essere “, per dirla con Carlo Cattaneo. I racconti delle  prime schede  dell’Osservatorio (11  si trovano sul sito, ma molte altre in elaborazione) ci forniscono una prima “finestra” su questo mondo in costruzione.  Le schede del nostro Osservatorio sono lunghe e documentate, il che non esclude brevi contributi che ne illustrino i tratti essenziali nella rubrica del Manifesto.

Ma qual’è la società, il progetto socioterritoriale che emerge in filigrana da queste prime ricognizioni? Innanzitutto, lo ripeto, la dimensione:  la significatività delle esperienze è ancorata a borghi, piccole valli, piccole città, quartieri: una dimensione che consente la ricostruzione delle relazioni di prossimità,  di forme comunitarie di neoradicamento territoriale, di scambio fiduciario, di rapporti economici non mercantili, di riconoscimento denso e minuto dei valori patrimoniali del luogo: acque, sentieri, sorgenti, mestieri legati al territorio, lingue, culture, spazi pubblici urbani. Poi la localizzazione: non è azzardato affermare che la densità di esperienze innovative cresce con il procedere verso le aree interne, i territori di alta collina e di montagna dell’esodo e della marginalità, dove si sperimentano processi di ripopolamento di aree periferiche e marginali. E’ come se le esperienze sociali puntiformi anticipassero un grande progetto di riequilibrio territoriale e culturale, come  viene delineato nell’affresco I borghi dell’utopia di Piero Bevilacqua in questa rubrica) dopo il grande esodo industriale e terziario verso le pianure e le aree metropolitane.  E ancora, il superamento della settorialità: i casi raccontati non riguardano il singolo  recupero di un edificio, di un borgo, una piazza, un bosco,  la raccolta differenziata dei rifiuti, un sentiero o una pista ciclabile, un ecomuseo, una filiera agroalimentare, un parco e cosi via: essi riguardano, sullo stesso territorio,  l’integrazione di molte di queste azioni; che sovente promanano da un conflitto o un obiettivo specifico, per poi investire  l’intero rapporto fra comunità insediata e territorio,  in un percorso di crescita della coscienza e dei saperi della comunità locale.

La patrimonializzazione dei beni comuni territoriali avviene, nei casi proposti dall’Osservatorio, attraverso una reinterpretazione culturale e collettiva  delle risorse attraverso forme di retro-innovazione: cosi, per fare qualche esempio,  nel comune di Castel del Giudice (alto Molise), dove la rinascita del paese si è incardinata su forme di coinvolgimento collettivo degli abitanti (fra cui l’azionariato popolare) in azioni progettuali quali una residenza per anziani, il rilancio dell’agricoltura con filiere corte (in particolare meleti), il recupero del centro storico con il progetto di un albergo diffuso. Nell’esempio della Val d’Ultimo (Merano), la ricostruzione di una complessa economia socio territoriale, per iniziativa dei contadini dei masi della valle, ha integrato fra loro risorse e antichi mestieri, separatamente poveri o di nicchia (legna, pecore, erbe officinali, lavorazione e tintura della lana, cosmesi e cure con prodotti naturali, produzioni artistiche, in legno, lana, pelle), reinserendoli in un processo di riappropriazione culturale che ha avuto come  epicentro la rivalorizzazione dei prodotti locali attraverso percorsi formativi e la qualificazione dell’offerta di prodotti in   rapporto alla  trasformazione della domanda urbana di salute e qualità della vita (Vienna, Graz, ecc). Nel caso dell’Ecomuseo del Casentino (Toscana), la ricostruzione di cittadinanza attiva è avvenuta attraverso lo strumento delle mappe di comunità, ovvero una forma partecipativa  di autoriconoscimento da parte degli abitanti dei valori patrimoniali con cui riorganizzare l’economia montana in forme collettive (associazioni culturali e produttive, consorzi di produttori, ecc), integrando diversi settori di attività (il recupero di manufatti storici, le produzioni della farina di castagna e della patata rossa, la valorizzazione sociale del paesaggio, dell’ospitalità, la sperimentazione di energie alternative e cosi via). Nel recupero della borgata Paraloup (Val di Stura), a segnare la particolarità del messaggio è il rapporto stretto fra memoria densa dei luoghi legati alla Resistenza (“Rinasce il borgo rifugio dei partigiani dopo la strage di Boves”) e il borgo restaurato come centro di irraggiamento di nuove culture e economie della montagna atte a  valorizzare l’identità storico-culturale del territorio (Museo multimediale della Resistenza e della storia locale, attività culturali e  turistico-ricettive, l’insediamento di attività agro-silvo-pastorali ecc.). Ma, scendendo in pianura, in provincia di Milano, il caso di Mezzago testimonia la  capacità di molte piccole città di sganciarsi da una realtà “provinciale” ovvero di dipendenza metropolitana e riaffermare, attraverso lo sviluppo di reti civiche complesse (associazioni di volontari, parrocchie, cooperative agricole, processi partecipativi, giornali, manifestazioni culturali, ecc) ) e di produzioni tipiche (in questo caso l’asparago), la permanenza di modelli socioculturali e identitari autonomi che reinterpretano in forme innovative, sociali e  relazionali  l’autogoverno della comunità.

Ritengo importante che questa contro-geografia di esperienze che andiamo denotando con l’Osservatorio si arricchisca, fino a consentire che la discussione politico culturale sulle alternative  alla crisi della globalizzazione economico finanziaria si appoggi non solo sul conflitto, ma sulla sua evoluzione in pratiche diffuse di costruzione di società locali allo stato nascente. Costruzione che passa attraverso nuove relazioni comunitarie fra abitanti, terra e territorio, che allontanano e marginalizzano i poteri globali, ricostruendo dal basso le basi socioeconomiche, materiali, della riproduzione della vita biologica, e immateriali, della riproduzione dell’ identità culturale.