Aziende Confiscate ai Boss.

Untitled-1Il caso di Suvignano, in comune di Monteroni d’Arbia (Siena).

Da Casole Nostra. I dati dell’Agenzia nazionale: 497 imprese fallite e liquidate, 45 messe in vendita, per 14 revocato il provvedimento. Dopo il caso di Suvignano, in Toscana, l’analisi della situazione a cura di Davide Pati, responsabile nazionale beni confiscati per Libera.

La recente decisione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata di mettere in vendita l’azienda Agricola Suvignano, in provincia di Siena, ha riproposto all’attenzione pubblica il tema della gestione delle aziende e delle attività d’impresa sottratte alle mafie. Secondo gli ultimi dati disponibili e aggiornati al 31 dicembre 2012, dall’entrata in vigore della legge Rognoni La Torre del 1982, sono state confiscate in via definitiva 1708 aziende. 623 in Sicilia, 347 in Campania, 223 in Lombardia, 161 in Calabria, 140 nel Lazio e 131 in Puglia, a conferma del fatto che le organizzazioni mafiose investono sempre più i propri capitali di illecita provenienza nel centro e nord d’Italia. In queste sei regioni si concentrano il 95% del totale delle aziende confiscate. Solo 12 in Toscana e tra queste l’azienda Agricola Suvignano, la più grande azienda agricola confiscata nel nostro paese, con un’estensione superiore ai settecento ettari di terreni. E’ una delle 92 aziende confiscate che operano nel settore dell’agricoltura.

Circa la metà del totale, invece, operano nel commercio (471) e nelle costruzioni (477). Seguite da quelle alberghiere e della ristorazione (173). Ma non mancano le attività immobiliari e quelle finanziarie, l’informatica e i servizi alle imprese, le imprese manifatturiere e di trasporto, quelle che si occupano di sanità e servizi sociali e persino le società di produzione e distribuzione di energia elettrica, acqua e gas. Le confische più recenti hanno riguardato, infine, alcuni impianti fotovoltaici e parchi eolici in Sicilia, Calabria e Puglia. Quasi la metà delle aziende confiscate sono società a responsabilità limitata (796) seguite da imprese individuali (408), società in accomandita semplice (247) e in nome collettivo (141). Solo 34 società per azioni.

Delle 1708 aziende confiscate in Italia, 497 sono uscite dalla gestione, mentre 1211 sono ancora in gestione dell’Agenzia nazionale. Le 497 uscite dalla gestione sono state cancellate dal registro delle imprese e liquidate. Per 14 di esse la confisca è stata revocata. Mentre in 45 casi si è proceduto alla vendita a soggetti privati. Delle 1211 ancora in gestione all’Agenzia nazionale, invece, 393 sono ancora da destinare (il consiglio direttivo dell’Agenzia si deve ancora esprimere sulla loro destinazione). 342 sono state destinate alla liquidazione, 198 hanno un fallimento aperto durante la fase giudiziaria, per 189 è stata richiesta la cancellazione dal registro delle imprese e/o dall’anagrafe tributaria. La gestione di 34 aziende è stata sospesa per pendenza di procedimenti penali, per 5 la sospensione è stata causata da varie criticità.

Solo 5 aziende sono state affittate a titolo oneroso a soggetti privati e una a titolo gratuito, cioè a cooperative di lavoratori dipendenti della stessa azienda. Mentre per 44 aziende la destinazione impressa è stata quella della vendita, a cui si è aggiunta da qualche giorno l’azienda Agricola Suvignano, nel comune di Monteroni d’Arbia. Parliamo di un’azienda ancora attiva, con dipendenti che sono riusciti a garantire la continuità delle attività agricole, turistiche e di allevamento tipiche della provincia senese. Una delle poche eccezioni se consideriamo, dai dati che abbiamo appena riportato, che sono poche decine le aziende che si salvano a seguito dei provvedimenti di sequestro e confisca antimafia.

Le cause di questo vero e proprio “spreco di legalità” sono diverse:

a) Revoca dei fidi bancari: le banche chiudono i “rubinetti”, revocando gli affidamenti e non consentendo all’azienda, già nella fase del sequestro, di proseguire la propria attività;

b) Rapporti con i clienti/fornitori: dopo il sequestro i clienti revocano le commesse e i fornitori chiedono di rientrare immediatamente dei loro crediti, in questo caso spingendo l’azienda alla chiusura;

c) Innalzamento dei costi di gestione: l’azienda sequestrata/confiscata, ricollocata in un circuito legale, sconta l’inevitabile aumento dei costi di gestione relativi alla regolare fatturazione delle commesse e alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro;

d) Gestione conservativa delle aziende: l’autorità giudiziaria e gli amministratori si trovano spesso senza strumenti, risorse e competenze specifiche.

Trasformare ogni azienda sottratta alle mafie in una risorsa in grado di sostenere il Paese in un momento di grande difficoltà economica e sociale, certo non è semplice. L’articolo 41 del codice delle leggi antimafia (decreto legislativo n.159 del 2011), stabilisce che, nel caso in cui il sequestro abbia ad oggetto aziende, l’amministratore giudiziario è scelto nella sezione esperti in gestione aziendale dell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari, che pur essendo stato istituito nello stesso giorno della nascita dell’Agenzia nazionale (febbraio 2010) non è ancora diventato operativo. Così come, da gennaio 2013 ad oggi, il consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale non è stato ancora integrato con i due qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali designati, di concerto, dal Ministro dell’Interno e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze.

Il consiglio direttivo è l’organo preposto alla destinazione dei beni confiscati. In particolare l’articolo 48 del codice antimafia stabilisce che i beni aziendali sono mantenuti al patrimonio dello Stato e destinati, con provvedimento dell’Agenzia che ne disciplina le modalità operative:

– all’affitto, quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività produttiva, a titolo oneroso, a società e ad imprese pubbliche o private, ovvero a titolo gratuito, senza oneri a carico dello Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata;

– alla vendita, per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima eseguita dall’Agenzia, a soggetti che ne abbiano fatto richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico o qualora la vendita medesima sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso;

– alla liquidazione.

Sono stati numerosi in questi giorni gli appelli – provenienti dagli enti locali, dal mondo della magistratura, del sindacato e dell’associazionismo – a non procedere alla vendita della più grande azienda agricola confiscata in Italia e a riprendere il percorso avviato dal tavolo istituzionale presso il Ministero dell’Interno, con la Prefettura di Siena, la Regione Toscana, la Provincia di Siena e il Comune di Monteroni D’Arbia, che andava nella direzione di una sua restituzione alla collettività, salvaguardandone i posti di lavoro presenti. In particolare, la Regione Toscana aveva proposto all’Agenzia di prendere in affitto l’azienda Suvignano, con la collaborazione del partenariato economico e sociale territoriale.

La decisione è andata invece in altra direzione per motivazioni che auspichiamo possano essere oggetto di ripresa di un approfondimento specifico. Sicuramente non si tratta di una procedura semplice, ma proprio in questo momento occorre uno sforzo da parte di tutti per supportare il compito dell’Agenzia, per poter giungere ad una revisione delle sue valutazioni, che l’hanno portata alla scelta della vendita. La stessa Agenzia, nella sua relazione annuale 2012, esplicitava le criticità di gestione delle aziende e proponeva di estendere alle aziende la disciplina oggi dettata per i beni immobili e consentire allo Stato e agli Enti territoriali di acquisire a titolo gratuito le aziende confiscate. Proponeva, altresì, al fine di scongiurare la chiusura aziendale e di evitare messaggi negativi alla cittadinanza, l’istituzione di un Fondo di rotazione che, ricorrendone i presupposti, verrebbe utilizzato per finanziare le aziende che presentano concrete possibilità di rimanere sul mercato. Si potrebbe creare – proseguiva la relazione dell’Agenzia – da un lato, una sinergia tra le aziende sequestrate e confiscate per la rotazione delle commesse e, dall’altro, una rete virtuosa che, coinvolgendo le associazioni rappresentative degli imprenditori, dovrebbe far rientrare l’ex azienda mafiosa in un circuito di legalità tramite le commesse provenienti dalle società facenti parte della rete. (…) Infine, sarebbe utile attivare protocolli d’intesa per utilizzare manager esperti del mercato di riferimento per la gestione imprenditoriale delle aziende particolarmente complesse. Per queste ragioni, è fondamentale l’approvazione in tempi rapidi della proposta di legge di iniziativa popolare “Io riattivo il lavoro”, già depositata in Parlamento.

Allo stesso modo, sarebbe importante anche un intervento del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, con il partenariato del Corpo forestale dello Stato e la collaborazione della Camera di Commercio di Siena, di Coldiretti, della Confederazione italiana agricoltori, di Confagricoltura e dell’Alleanza delle cooperative agricole. Solo in presenza di una forte volontà condivisa, infatti, si potrà assicurare la ripresa del tavolo istituzionale interrotto qualche mese fa, al fine di restituire alla collettività l’Azienda agricola Suvignano, moltiplicandone le potenzialità occupazionali e di sviluppo comunitario in termini sociali, culturali e di partecipazione democratica.

I beni culturali non sono «il nostro petrolio»

petroliodi VITTORIO EMILIANI, L’Unità, 18 Agosto 2013.

Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall’Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.

La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».

Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile… Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.

Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.

Balle. Sonore balle. I musei – a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre – non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.

Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.

Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?

A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?

Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.

Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.

Rassegna Stampa

1 – 14 Agosto

Abusi e offese del paesaggio e dell’ambientecastelfiorentino

La Regione prepara le misure di difesa

Le proteste dei cittadini

SEGNALAZIONI

 

La talpa Moretti

di PAOLO BALDESCHI, da Eddyburg, 12 Agosto.

Le talpe sono notoriamente animali dotati di scarsissima vista. Così deve essere Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, talpa forse per contagio da “Monnalisa”,la fresa che perde pezzi, capace di un lavoro di ‘merda’ secondo la frase (intercettata) di uno degli addetti incaricati del suo utilizzo.La talpa Moretti dichiara in un’intervista alla Nazione del 31 luglio 2013 “Non è che abbiamo voglia di delinquere … Ci si deve dare una mano … non si può pensare che chi deve fare delle cose, specie un gruppo come il nostro, abbia chissà quale interesse a volere effettuare operazioni contro la legge, non se ne capirebbe il motivo … Poi dovremo affrontare il problema delle rocce di scavo (dopo la verifica dell’idoneità della fresa, nda), capendo quale legislazione dobbiamo rispettare.”

Moretti non è stato in grado di leggere, le delibere della Giunta regionale toscana del 31 gennaio 2011, del 24 aprile 2012 e del 15 ottobre 2012, estremamente dettagliate nei contenuti tecnici formulati dal Nucleo di valutazione ambientale. Riassumiamo le conclusioni dell’ultimo documento: la ‘duna schermo’, da realizzare nella miniera di Santa Barbara a Cavriglia (AR), è autorizzata a patto che le 2.800.000 tonnellate di materiale di scavo contaminato dalla fresa siano trattate come rifiuti e come tali analizzate e bonificate. A meno che non si avveri l’auspicio (intercettato) espresso da Busillo, tecnico della Seli, la società proprietaria della talpa. “Serve il Decreto (Sviluppo, nda) perché il materiale viene chiamato col nome giusto, rocce e terra proveniente dagli scavi e quindi l’Enel (?) dà l’autorizzazione allo stoccaggio permanente…” . Questione nominale, una bazzecola, che può essere risolta semplicemente riclassificando il materiale di scavo da rifiuto a roccia e terra, sia pure allo stato semiliquido; ci penserà a ‘dare una mano’ il Ministro Lupi? Si sa che la talpa ha la vista corta, ma sa ben scavare nel sottosuolo del lobbismo. Appaiono, perciò, imprudenti o impudenti le dichiarazioni del Sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, Erasmo D’Angelis, che annuncia per settembre 2013 la ripresa dei lavori. Ma, in attesa, la legislazione da seguire è chiarissima; a meno che l’interesse di effettuare operazioni contro la legge, sia – guarda caso – di far risparmiare sui costi di smaltimento che sarebbero ben più consistenti per Nodavia, società controllata da Coopsette – partner delle FSS in molti lavori, fra cui la stazione Tiburtina – che nel gennaio del 2013 ha chiesto al tribunale di Reggio Emilia di essere ammessa al concordato preventivo.

Particolare da non trascurare l’indagine in corso da parte della Procura di Firenze (gennaio 2013) su 31 soggetti, funzionari ministeriali e dirigenti di aziende, fra cui Maria Rita Lorenzetti (Pd), ex presidente della Regione Umbria e presidente dell’Italferr (società di progettazione del gruppo Ferrovie), cui vengono contestati l’abuso di ufficio, l’associazione a delinquere e la corruzione, ”svolgendo la propria attività nell’interesse e a vantaggio della controparte Nodavia e Coopsette (soggetti appaltanti)”. Né del tutto secondario il fatto che una delle ditte incaricate in subappalto dello smaltimento di fanghi sia legata alla camorra dei Casalesi. Ma si sa, Moretti ha una vista troppo corta per occuparsi di questi aspetti, anche se non ha alcun interesse ad agire contro la legge.