Piombino, cronaca di un costoso fallimento portuale

Dopo l’addio del cargo Moby il sindaco Giuliani chiede lumi all’AdSP anche sui progetti (al palo) di General Electric e Piombino Industrie Marittime.

di Andrea Moizo, su Ship2shore, 9 settembre

“No, così non va. Dal porto ci aspetta­vamo molto di più. Non è pensabile che con tutti i soldi pubblici spesi, i tempi record per i lavori, la ricchezza delle aree retroportuali, non ci siano ancora risultati in termini di traffici e posti di lavoro”.

È con queste dure parole che il sindaco di Piombino Massimo Giuliani ha com­mentato a Il Tirreno la notizia (anticipata da Ship2Shore) del trasloco a Livorno dei collegamenti cargo di Moby per la Sardegna. Una scelta che, per quanto, ha spiegato l’armatore, non causi pro­blemi ai dipendenti della compagnia, avrà secondo Giuliani ricadute occupazionali nell’indotto dello scalo. Ma a preoccupare forse maggiormente il primo cittadino è la misteriosa sorte dei due progetti che, a latere del rilancio dell’acciaieria (un disa­stro: dopo gli anni e i soldi pubblici persi con l’algerina Cevital si spera nella JSW della famiglia indiana Jindal, subentrata a luglio), avrebbero dovuto, forti dell’impe­gno da decine di milioni di euro garantiti da Governo e Regione con l’accordo di programma sottoscritto nella primavera 2014, rilanciare la portualità piombinese. Passati quattro anni e mezzo il risultato è zero.

L’intervento maggiore riguardava la rea­lizzazione di una banchina di 300 metri di lunghezza (banchina interna Darsena Nord), ortogonale alla banchina Est già realizzata, nonché il dragaggio a quota -20 metri dei fondali prospicienti la nuova banchina fino all’area di evolu­zione già dragata a quota -20. L’appalto principale (chiuso a 17,8 milioni di euro) è stato aggiudicato nel dicembre 2015 e dall’aggiudicazione sarebbero dovuti pas­sare 12 mesi. I lavori, però, si apprende dalla documentazione rinvenibile sul sito dell’Autorità di Sistema Portuale di Livorno e Piombino, sono cominciati solo nell’aprile del 2017 (anche se non si spiega la ragione del ritardo) “e si prevede che si concludano entro luglio 2018”.

Ad aprile l’ente spiegava che “le attività di realizzazione dei sotto servizi e realiz­zazione dei piazzali sono in fase di proget­tazione esecutiva (l’affidamento dei lavori è previsto entro il 2018)”, garantendo la realizzazione “entro il 2019”, ma ad oggi non risultano gare in tal senso (perlo­meno non nell’apposita sezione del con­fuso sito di amministrazione trasparente dell’AdSP).

Nel frattempo però, nel giugno 2017, quando il Comitato di Gestione dell’ente non era stato nemmeno interamente com­posto, il presidente Stefano Corsini ha rilasciato (senza gara) una concessione ventennale per 200mila mq del piazzale in costruzione a Nuovo Pignone, società della Divisione Oil&Gas del gruppo General Electric, impegnatasi “ad avviare a proprio carico le attività di progettazione esecutiva dei sottoservizi e delle platee per assemblaggio e collaudo dei moduli industriali” e ad investire “20 milioni di euro nel triennio 2018-2020 per la realiz­zazione di infrastrutture per la logistica, tra cui un magazzino coperto di 14mila mq”.

Di tutto questo non c’è traccia, mentre General Electric pochi mesi fa ha annun­ciato di aver avviato la dismissione della sua quota del 62% in Baker Hughes, la società cui fa capo Nuovo Pignone. Che non ha voluto commentare la situazione piombinese e rispondere ai timori di un disimpegno rispetto agli obblighi conces­sori.

L’altro progetto, da realizzarsi sulla ban­china di fianco, quella est, era quello del polo di demolizioni/refitting. A settembre del 2016 il grosso delle aree (80% circa degli oltre 100mila mq complessivi) venne consegnato al neoconcessionario (per 10 anni, ma secondo documenta­zione della Regione Toscana, regista di tutta l’operazione Piombino, 40 anni), una joint venture fra la genovese San Giorgio del Porto e il livornese gruppo Fratelli Neri. Che avrebbe dovuto immantinente avviare un investimento da 14 milioni di euro per lanciare un’impresa da 200 posti di lavoro.

Il marzo scorso però, il presupposto che reggeva l’affaire — l’assicurazione data dall’allora Ministro della Difesa Roberta Pinotti di assegnare a Piombino Industrie Marittime la demolizione di 38 unità della Marina Militare – è venuto meno causa la (scontata) insostenibilità economica. Da allora PIM, che in Camera di Commercio è tuttora iscritta come impresa inattiva, non ha fornito chiarimenti e l’unico gene­rico abbozzo di delucidazioni lo si trova nel bilancio 2017: “Nell’esercizio sono proseguite le attività amministrativo-burocratiche e i contatti con la locale pubblica amministrazione per l’ottenimento delle autorizzazioni per lo svolgimento dell’attività cantieristica, autorizzazioni complesse che necessitano di altrettanta complessità tecnico-amministrativa”. Nella “locale pubblica amministrazione” non deve esser contemplato il Comune, considerato che per l’irritatissimo Giu­liani la banchina di PIM è oggi una “pista di atterraggio per i gabbiani”, mentre non è dato sapere se anche l’ente deputato, l’AdSP, abbia toccato il tempo ai con­cessionari, dato che l’Authority non ha ancora risposto ai nostri quesiti. Auspi­cabile che Corsini abbia anticipato un resoconto sulla situazione almeno al sin­daco, che, dopo la notizia su Moby, gli ha immediatamente chiesto un incontro sul fallimento portuale di Piombino.

Andrea Moizo