La struttura del paesaggio

a proposito del libro curato da Anna Marson

di Angela Barbanente, www.casadellacultura.it, 18 gennaio 2018.

Un testo è sempre definito e ridefinito dalle relazioni che instaura con i lettori. Nella scrittura dei piani si è guidati da chi si immagina che possa leggerli e dai modi in cui è probabile che li si legga. Dal “lettore ideale” disposto a diventare “cittadino ideale” nella lettura di Geddes proposta da Ferraro (1998), a chi si accosta ai piani in modo discontinuo e frammentario, in arene dove si lotta per imporre il proprio punto di vista o in uffici nei quali ci si occupa dell’attuazione di singole parti.Nella scrittura dei piani, spesso si usa una prosa difensiva, per evitare di segnalare incertezze o rischi riguardo al futuro. Nei testi dei piani, i pubblici non saranno mai volubili e miopi, i leader mai confusi e incerti, le burocrazie mai incompetenti o ignoranti (Mandelbaum 1990). Il libro curato da Anna Marson – La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana (Laterza, 2016) – non è stato scritto così, perché ha un intento diverso. Il volume, come espresso con chiarezza dalla curatrice nelle note introduttive, “approfondisce, attraverso una serie di contributi originali scritti appositamente (…), i metodi impiegati per leggere il paesaggio e le tecniche messe al lavoro nel complesso percorso di costruzione del piano paesaggistico della Toscana”. Sollevando problemi, ponendo domande, affidando a più voci di diversa matrice disciplinare la ricostruzione di un percorso “faticoso e avvincente”, che ha coinvolto studiosi delle cinque principali Università toscane afferenti al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio (CIST), il libro induce a (tornare a) leggere il piano paesaggistico della Toscana in modo riflessivo, con un atteggiamento aperto al confronto e all’apprendimento. Coerentemente con l’intento dichiarato e rimarcato dal sottotitolo, il volume offre molte suggestioni e utili indicazioni a chiunque vi si accosti con la curiosità di ricercatori e professionisti interessati a comprendere come tale percorso si sia sviluppato nella pratica: come, nella sperimentazione multidisciplinare che lo ha connotato, ci si sia misurati con il carattere polisemico e sfuggente del concetto di paesaggio, come si siano fatti interagire e convergere differenti linguaggi, chiavi di lettura, metodi di analisi, e quali esiti, inevitabilmente parziali, provvisori, incerti, si siano conseguiti.
Non è possibile rendere conto in poche righe della ricchezza e profondità dei temi affrontati nei 19 saggi raccolti nel volume. All’ampia Introduzione della curatrice, seguono i saggi di Paolo Baldeschi, responsabile scientifico degli studi affidati al CIST, e di Ilaria Agostini e Claudio Greppi. Questi forniscono prospettive ed elementi interpretativi utili a comprendere il contesto entro il quale si sono sviluppate alcune fondamentali scelte del piano: nel primo contributo sono indagati i fattori culturali, politico-istituzionali e socio-economici che, sin dalla seconda metà degli 1980, hanno favorito la progressiva maturazione in Toscana dell’interpretazione identitaria e strutturale del territorio che caratterizza il piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico: dal piano regolatore generale di Siena di Bernardo Secchi ai piani territoriali di coordinamento delle province di Firenze, Siena, Arezzo e Prato ai quali partecipa il Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio della Università di Firenze (da Cusmano a Di Pietro, a Magnaghi); il secondo contributo rende conto della pluralità di criteri e approcci sui quali si è fondata la delimitazione degli ambiti di paesaggio richiesta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il cuore del volume è costituito da 14 testi scritti da studiose e studiosi di matrice disciplinare diversa, impegnati nella ricostruzione dei processi di territorializzazione, nella indagine sulle forme di rappresentazione del paesaggio, nella analisi strutturale del territorio, e nella definizione di alcuni strumenti essenziali per garantire l’operatività del piano. Ciascun saggio restituisce le premesse e contenuti salienti del lavoro di indagine, facendo emergere il terreno comune di confronto metodologico, analitico e progettuale con gli altri saperi.
Il volume è chiuso da due Postfazioni affidate ad autori esterni al gruppo di lavoro: Salvatore Settis e Bas Pedroli. I loro contributi consentono di allargare l’angolo visuale e di osservare il piano paesaggistico toscano, nel primo caso, alla luce delle difficili convergenze ricercate nella stesura del Codice dei beni culturali e del paesaggio fra Stato titolare del vincolo paesaggistico e Regioni titolari della pianificazione; nel secondo caso, in relazione agli elementi di innovazione che il piano stesso esprime quando posto a confronto con le esperienze in atto in altri paesi europei.
Nelle righe che seguono proverò a enucleare alcuni spunti di riflessione, necessariamente limitati e parziali, fra i tanti suscitati dalla lettura del volume.

Innovazioni problematiche
I ‘nuovi’ piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si misurano con innovazioni rilevanti introdotte dalla Convenzione europea del paesaggio e dal Codice stesso. Essi dovrebbero favorire il superamento di un approccio alla tutela del paesaggio essenzialmente affidato ai vincoli imposti per legge o per decreto su parti di territorio sottoposte a uno speciale regime autorizzativo che ha finito per far prevalere la componente burocratico-amministrativa su ogni altra prospettiva. Un approccio che ha dimostrato tutti i suoi limiti di efficacia, fino al punto da rendere non sempre facilmente distinguibili i paesaggi protetti da tutti gli altri. L’evoluzione normativa ha determinato un mutamento d’identità dell’interesse paesaggistico. Ora riferimento essenziale è il “paesaggio”, e non il bene paesaggistico – argomentano Marzuoli e Vettori. Il Codice, pur mantenendo la distinzione fra paesaggio e beni paesaggistici, attribuisce priorità alla pianificazione (Settis, p. 275) e, in accordo con la Convenzione europea del paesaggio, richiede che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono.
Tale prospettiva pone alcuni problemi, ai quali opportunamente l’introduzione della curatrice dedica ampio spazio. Fra questi, il sovraccarico di compiti che grava sui piani paesaggistici regionali, dovuto sia alla mancanza di politiche pubbliche in materia di paesaggio sia alle resistenze, all’incapacità o alla scarsa abitudine a integrare il paesaggio nelle altre politiche che su di esso possono avere un’incidenza diretta o indiretta. Una siffatta integrazione è esplicitamente richiesta dalla Convenzione europea del paesaggio, che non manca di indicare in modo puntuale le materie nelle quali le parti si impegnano a garantirla: politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e (…) quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico (art. 5d).
La grande distanza che separa i principi stabiliti dalla Convenzione europea del paesaggio e le politiche messe in opera nei diversi settori che incidono sulle trasformazioni del paesaggio – argomenta Marson – è un problema che riguarda sicuramente l’Italia, ma non solo. Lentezze, difficoltà, incertezze, riluttanza nell’attuazione della Convenzione europea del paesaggio sono osservabili in molti stati e regioni d’Europa (Pedroli). D’altra parte, l’attenzione al paesaggio è carente anche nelle politiche comunitarie che maggiormente incidono sulla realtà del territorio e dell’ambiente rappresentata nel paesaggio. Si pensi, fra tutte, alle politiche in materia di agricoltura e ambiente, nelle quali l’Unione Europea esercita competenza concorrente con quelle degli Stati membri, e dunque legifera e adotta atti giuridicamente vincolanti. Promuovere ricerche che indaghino in modo sistematico e approfondito le trasformazioni del territorio e del paesaggio generate direttamente e indirettamente dalla combinazione di strumenti e politiche settoriali, fornirebbe elementi utili per individuare le azioni, gli attori e le risorse necessarie per tutelare, valorizzare e riqualificare i paesaggi e riflettere con maggiore consapevolezza su potenzialità e limiti di efficacia dei nuovi piani paesaggistici.

Leggere, interpretare e rappresentare il paesaggio
Le domande con le quali si è dovuto misurare il gruppo di ricerca nella elaborazione del piano paesaggistico, sollevate dalla curatrice in vari paragrafi della sua introduzione, costituiscono filo conduttore che connette la gran parte dei contributi scientifici raccolti nel volume. Per questo meritano di essere largamente riportate. “Come affrontare (…) una lettura del paesaggio non solo estetico-percettiva, e dunque esposta ai rischi dell’apprezzamento soggettivo e datato, ma capace di indagare le relazioni strutturali alla base dei paesaggi che noi vediamo? Come individuare gli ambiti di paesaggio? Come passare dalla lettura alla scala regionale a quella di maggiore dettaglio degli ambiti? Come rapportarsi alle dinamiche di lungo periodo, e alle trasformazioni in corso? Come impostare una cornice normativa in grado di tenere insieme disciplina dei vincoli e disciplina di tutto il territorio regionale?”.
Sono domande ineludibili per affrontare in maniera consapevole le sfide poste dalla Convenzione e dal Codice. Questi obbligano ad allargare lo sguardo dal singolo bene al contesto, cogliendo le interdipendenze che legano fattori naturali e umani; a estendere l’attenzione all’intero territorio regionale e, allo stesso tempo, a puntarla sulla varietà di paesaggi nei quali esso si articola (a partire dagli ambiti di paesaggio); a interrogare i tempi lunghi della storia ricercandovi persistenze e permanenze ma anche discontinuità e brusche fratture.
Gli approfondimenti concettuali e i chiarimenti metodologici offerti dai saggi che compongono il volume permettono di dare risposte non generiche a queste domande. Questo – mi pare di poter sostenere – grazie a due concomitanti condizioni. Da un lato, la tensione progettuale, e la conseguente ricerca dell’unitarietà dell’atto culturale e operativo funzionale alla costruzione del piano, non ha comportato la rinuncia dei ricercatori all’utilizzo dei propri specifici strumenti disciplinari. Dall’altro lato, l’aver saldamente ‘situato’ concetti e metodi nel percorso di elaborazione del piano ha consentito di valorizzare la specificità delle diverse discipline, costringendole però, nello stesso tempo, a interagire in maniera profonda. Le rappresentazioni del territorio e del paesaggio, purtroppo drasticamente selezionate per la pubblicazione, sono di grande importanza a tal fine. Il metodo adottato ha fatto sì che esse agissero “in arene interattive in cui i diversi approcci disciplinari si confrontano”. La stessa efficacia delle rappresentazioni è stata misurata in base alla capacità di “rendere possibile il dialogo fra diversi paradigmi descrittivi” (Lucchesi, p. 103).
Nonostante il carattere ‘situato’ della sperimentazione, le innovazioni proposte assumono valenza più generale, inducendo a riflettere sull’esperienza chi si sia già cimentato o si stia ancora cimentando in Italia con gli specifici profili della pianificazione paesaggistica delineati dal Codice, e rivelandosi di notevole utilità anche nel panorama europeo, come è testimoniato dal contributo di Pedroli. Questa valenza più generale si manifesta nonostante il carattere singolare dell’esperienza di pianificazione toscana, evidenziato soprattutto da Baldeschi: non solo per gli accennati precedenti ai quali si è potuta ancorare l’interpretazione strutturale e identitaria del territorio alla base del piano, ma anche per l’eccezionalità della situazione politica entro la quale l’esperienza è maturata.
Il territorio, per troppo tempo ridotto a spazio muto, inanimato, attraverso la trasformazione in paesaggio, vuole tornare a parlare, soprattutto ai suoi abitanti. Da oggetto, esso diventa “soggetto” nello scritto di Paolo Baldeschi, “neoecosistema ad alta complessità” nel saggio di Magnaghi. In entrambi i casi è interpretato come sistema vivente che si trasforma, evolve continuamente e necessita di cura costante. L’approccio strutturale alla conoscenza del paesaggio consente di coglierne la dinamica complessiva e le regole generative e coevolutive nella longue durée, e di intendere le “invarianti strutturali” – attinenti ai caratteri idro-geo-morfologici, ai caratteri ecosistemici dei paesaggi, al carattere policentrico e reticolare dei sistemi insediativi, ai caratteri morfotipologici dei sistemi agroambientali dei paesaggi rurali – non quali oggetti di valore eccezionale ma quali regole (spesso non scritte) riconosciute grazie alla interpretazione dei caratteri delle invarianti, e da seguire nelle trasformazioni ordinarie del territorio-paesaggio per conservarne o elevarne la qualità. L’approccio strutturale rompe l’isolamento nel quale i beni paesaggistici erano stati per lungo tempo confinati e favorisce un dialogo, che richiede ancora approfondimento e sperimentazione, fra quelle limitate, speciali parti territorio che si cercava (e si cerca) di difendere mediante i vincoli, e il contesto territoriale nel quale esse sono inserite, che inevitabilmente condiziona ogni possibilità di tutelarle e valorizzarle.
Fonti documentarie, bibliografiche, cartografiche, iconografiche sono state interrogate con ampiezza e profondità nel percorso di costruzione del piano per mettere in relazione passato e futuro, storia e progetto, per indagare le capacità dei territori di autoprodurre legami profondi fra popolazioni, attività e luoghi e le ragioni della perdita di qualità relazionali. Questa interrogazione delle fonti, nell’elaborazione dei piani svolta (e di rado) senza alcun rigore, è stata affidata a contributi specialistici: dall’indagine geostorica di Anna Guarducci e Leonardo Rombai, alla ricostruzione storico-archeologica di Franco Cambi e Federico Salzotti, alla ricerca storico-artistica di Valeria E. Genovese. Tratto comune di questi contributi è l’ampiezza e profondità della prospettiva spazio-temporale assunta per indagare i paesaggi, e la capacità di sottrarre l’analisi a ogni logica enumerativa, classificatoria, ‘filatelica’, che porta a concentrarsi sui singoli oggetti isolandoli dal contesto che li ha prodotti e con il quale essi intimamente interagiscono.
Il tema della rappresentazione del paesaggio occupa uno spazio cospicuo nel volume. Alle rappresentazioni non sono affidate solo funzioni attinenti alla sfera tecnica. Ad esse è assegnata anche una essenziale funzione culturale e sociale. La cartografia e l’iconografia del paesaggio partecipano alla costruzione del ‘racconto’ che il piano ha bisogno di creare per diventare patrimonio collettivo. Un racconto che invita a rileggere con sguardo critico i paesaggi contemporanei e con sguardo curioso i paesaggi storici, a scoprire paesaggi perduti e paesaggi che resistono ma che l’abitudine, l’indifferenza e la colonizzazione delle menti impediscono di riconoscere nella loro complessità di relazioni spazio-temporali. Un racconto che persuade a ricercare nelle regole statutarie messe in luce dalle rappresentazioni del piano la strada per produrre nuovi paesaggi di qualità.
La rappresentazione cartografica del paesaggio riveste un ruolo cruciale per indagarne e comunicarne caratteri, dinamiche, relazioni. La sfida, in un atto pubblico qual è un piano, consiste nella capacità di mostrare “attraverso la cartografia i caratteri del paesaggio (insieme: la sua evidenza fenomenologica e le regole che lo strutturano) (…), senza allontanarsi dal rigore della topografia e della costruzione metodica dei materiali descrittivi.” (Lucchesi, p. 102). Per la ricerca sulla iconografia del paesaggio, la sfida è raggiungere l’obiettivo “di trasmettere con efficacia la conoscenza dei processi trasformativi che generano i diversi paesaggi regionali, di educare a una lettura consapevole del paesaggio in cui si vive, di immaginare con maggiore competenza e sensibilità i successivi passi del processo paesaggistico in ineludibile rapporto con il pregresso” (Genovese, p.114).
La sperimentazione delle norme figurate, della quale rende conto il contributo di Poli e Valentini evidenziandone le specificità rispetto ad altre esperienze italiane ed europee, mira a rafforzare la funzione euristica, argomentativa e orientativa della norma scritta, senza incidere sulla sua valenza prescrittiva e senza pretendere, come in altre stagioni di pianificazione, di proporre modelli e prefigurare soluzioni progettuali.
L’efficacia di un piano dipende – ci ricorda Massimo Morisi nel suo saggio – da molteplici circostanze esogene e dalla sua genesi, ed è legata alla legittimazione che al piano stesso è conferita dal contesto politico e culturale. L’osservatorio regionale del paesaggio previsto dal Codice può acquisire un ruolo cruciale nella messa in opera del piano, quale snodo tra rappresentanza politica e partecipazione civica ai fini dell’effettività del piano stesso. Questo, purché l’osservatorio sia concepito non come “un mero ufficio regionale” e “un’apposita etichetta burocratica” ma come struttura aperta e dinamica le cui funzioni e attività traggano alimento e vitalità da “una pluralità di osservatori locali con esso funzionalmente e organizzativamente interrelati”. Ritengo che a tale sistema di osservatori dovrebbe essere affidato soprattutto il compito di attivare “quella “conoscenza affettiva” del paesaggio che, partecipata e condivisa, maggiormente collabora alla sua tutela e alla sua progettazione rispettosa” (Genovese p. 126). Carlo Donolo, che ha dedicato gran parte del suo percorso di ricerca allo studio dei beni comuni, ci ha fatto comprendere a fondo l’importanza di questo compito e il ruolo cruciale delle istituzioni, usando anche espressioni forti per essere meglio compreso da un pubblico vasto: “solo la (…) condivisione garantisce [ai beni comuni] la riproduzione allargata nel tempo. La rilevanza dell’aggettivo “comune” viene enfatizzata dal dato di fatto che i processi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazione alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l’inevitabile conflitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che – tanto per capirci – ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo” (Donolo 2011).
Una sfida di tale portata non può certamente essere affrontata restando intrappolati nei recinti della gestione burocratico-amministrativa dei beni paesaggistici o di un governo del territorio essenzialmente affidato a strumenti regolativi. Essa richiede forme di gestione attiva del paesaggio, capaci di mobilitare una pluralità di conoscenze, progettualità, risorse e attori in iniziative di tutela, valorizzazione e riqualificazione differenziate, che esaltino le specificità di ciascun paesaggio e si integrino strettamente alle politiche di sviluppo locale.

Riferimenti bibliografici Carlo Donolo, I beni comuni presi sul serio, 31 maggio 2010. Editoriale per labsus – il laboratorio per la sussidiarietà (www.labsus.org)
Ferraro, G. (1998) Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano.
Mandelbaum, S. J. (1990) Reading plans. “Journal of the American Association”, 56, 350-356.