Viaggi delle opere o viaggi dei cittadini?

Una proposta radicale per una politica culturale europea

imagesdi TOMASO MONTANARI, da Huffington post, 24 giugno.

Ha senso considerare, conoscere, apprezzare, godere gli elementi del patrimonio culturale sradicandoli dal loro contesto territoriale? Solo per la genìa rapace degli sfruttatori d’ogni bene.

Mentre leggete questo articolo, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli: mai la definizione di patrimonio artistico mobile è stata presa alla lettera come oggi, quando si stima che ogni anno (e solo in Italia) vengano movimentati circa 15.000 pezzi archeologici e circa 10.000 opere d’arte dal Medioevo all’Ottocento. Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell’ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell’Otto e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E senza contare l’imbarazzante bazar dell’arte italiana che è stato messo in piedi nel serraglio dell’Expo di Milano. Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi.

Un altro è che si tratta di un’industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d’arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n’è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini. Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali italiano si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d’altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l’attualità e la forza di un modello alternativo.

Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l’aspirazione contestuale di Sloow Food: non “la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città”, ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli “a casa loro”. Bisognava attuare l’idea di Luigi Veronelli, che parlava di “camminare le osterie”, “camminare le cantine”: e da lì “camminare la terra”, “camminare le campagne”. Insomma: “bisognava rompere la gabbia”, e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell’arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l’umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell’arte, parlare al nostro tempo. Perché c’è urgente bisogno di “rompere la gabbia” degli eventi, e di ricominciare a “camminare il patrimonio”. Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del “chilometro zero”.

 

Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l’arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell’arte italiana. Invece di andare a vedere una mostra che si intitola “Tuthankamon Caravaggio Van Gogh” (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un’epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso).

Potremmo iniziare a “camminare” il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall’industria culturale – ormai insostenibile – ci farebbe immediatamente vedere l’enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il “patrimonio storico e artistico della nazione italiana” (art. 9 della Costituzione), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra. Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell’onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l’effimero e l’inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell’arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh. Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni ‘culturali’ a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire.

Ma accanto al “km zero” della piccola patria ci vuole l’ambizione di conoscere, direttamente e profondamente, la grande patria europea. E perché questo accada davvero c’è bisogno di un segnale molto forte, di un accordo europeo per invertire la rotta. La proposta, dunque, è la seguente: i governi dell’Unione europea dovrebbero firmare un accordo per sospendere per (diciamo) cinque anni i prestiti delle opere d’arte tra i rispettivi musei. Ma questa è solo la prima parte della proposta, quella negativa. La seconda, costruttiva, è che quell’accordo preveda di destinare tutti i fondi pubblici (centrali, locali, museali) che sarebbero stati spesi nelle mostre ad un fondo europeo per incentivare viaggi di cittadini europei tra i 18 e i 25 anni, vincolando i giovani viaggiatori a itinerari che includano visite ai musei e al patrimonio culturale monumentale, dove li aspetterebbe una campagna di comunicazione a loro rivolta. Una specie di Grand Tour popolare, e finanziato dall’Unione, che ribalti il paradigma dominante: e cioè che sostituisca ai viaggi delle opere i viaggi dei cittadini. Un modo per rispettare il patrimonio, ma soprattutto per ridare al patrimonio culturale europeo la sua funzione fondamentale: formare europei del futuro che abbiano un senso vivo dell’identità collettiva europea fondata sulla cultura. Ritornare a camminare l’Europa per costruire più Europa.