>L’aeroporto di Ampugnano uno “status symbol” locale? di Luciano Fiordoni

>Contributo all’assemblea di Sovicille del 20-11-10

Un giorno aprendo la finestra di camera ho notato una grossa ruspa che scavava un enorme buco sul terreno del vicino. “Facciamo una piscina” mi fu detto “sai in campagna d’estate fa comodo e poi accresce il valore della proprietà”. Il buco fu foderato di un telo blu, colmato di acqua e additivi chimici, recintato per la sicurezza nonché infine attrezzato di sedie di plastica, dondolo e luci a palloncino per l’utilizzo notturno. Da allora, un motore, rompendo il silenzio delle campagna filtra incessantemente una massa di acqua che col tempo ha perso i suoi connotati originali.

L’utilizzo della piscina ha avuto un andamento gaussiano, dopo l’entusiasmo del primo anno le frequentazioni e i bagni si sono ridotti ed oggi è un puro simulacro dell’inutilità. Con il tempo si è pertanto posto il problema di dare un senso non alla sua presenza ma ai suoi costi non gaussiani. Lungi dall’optare per la chiusura del buco perchè segnerebbe una sconfitta dell’ego famigliare si è pensato di farci bagnare gli stranieri attirati da esperienze “agrituristiche” in Toscana mentre i proprietari si sono trasferiti in città.
A mio avviso tale vicenda ha evidenti similitudini con l’aeroporto di Ampugnano.
L’ostinatezza di mantenere in piedi una struttura aeroportuale costosa e praticamente inutile esula da motivazioni puramente razionali che imporrebbero la chiusura o il cambio di destinazione del sedime aeroportuale per debordare nell’irrazionale del mondo delle suggestioni di un certo provincialismo culturale locale.
Sul piano politico la razionalità imporrebbe da parte delle rappresentanze politiche trasparenza e condivisione delle scelte con i cittadini, l’irrazionalità/abuso di potere porta invece le stesse a operare scelte sotterranee e a negare l’evidenza dei fatti.
Che lo sviluppo di un aeroporto come Ampugnano sconti ormai una condizione di marginalità economica è opinione diffusa non solo tra la comunità di cittadini ma anche per alcuni organismi pubblici nazionali.
Lo ribadisce chiaramente:
i) uno studio sul sistema aeroportuale nazionale elaborato da One Works, KPMG e Nomisma per il ministero. Gli aeroporti con movimenti di passeggeri inferiori a 1 milione di unità hanno ragione di esistere solo se finanziati localmente con denari pubblici o privati. Sappiamo benissimo che il territorio di cui si parla non può sostenere un’ “orma ambientale” di tale misura, né esistono adeguate strutture di collegamento (strade, ferrovia etc) che possano avallare un processo di integrazione funzionale tra aeroporti (come affermato dall’attuale presidente della società aeroportuale). D’altronde il tentativo di trasformare tale bene in un’attività finanziaria da far circolare nel mercato internazionale dei capitali (operazione Galaxy) si è rivelata fallimentare nella forma e nella sostanza.
ii) uno studio ACI Europe sugli operatori aeroportuali europei da cui si evince che dei 404 aeroporti censiti, 371 sono a proprietà pubblica, 52 sono a capitale misto (pubblico- privato ma con il controllo pubblico) e 35 sono posseduti da privati. Naturalmente gli aeroporti privati sono quelli più grandi come London-Heathrow (BAA), Frankfurt (FRAPORT) and Moscow-Domodedevo (EastLine Group). Ancora più evidente la natura pubblica della proprietà se si guarda lo scenario europeo nel suo insieme come si evince dal grafico sotto riportato (elab.ne su dati ACI 2010).

Perchè allora questa ostinatezza a proseguire in un progetto costoso e di per sé senza prospettive future. Perchè abbattere una struttura aeroportuale per ricostruirla, perchè investire milioni di euro in un progetto destinato a perpetuare perdite di ricchezza?

Viene da pensare che un aeroporto rappresenti per le lobby di potere senesi uno status symbol come la piscina è uno status stymbol individuale e sia figlio di un modello culturale localista dove gli interessi privati riferibili ad una cerchia ristretta di persone/società prevalgono su quelli generali. Siamo nell’ambito delle motivazioni che esulano da principi razionali di responsabilità sociale ed economicità per debordare nel campo dell’emotività e delle suggestioni di gruppo dominante.

Sul piano sociologico potrebbe essere assimilato ad un tentativo del potere di autoaffermarsi/legittimarsi: es. la risposta positiva al mio messaggio (insensato) consolida il mio peso decisionale nel territorio

Da puri osservatori esterni di questo meccanismo di potere ci chiediamo, ora che Galaxy si è defilata, quali siano le fonti di finanziamento di tale progetto e gli obiettivi reali.

Circa le fonti di finanziamento si profila all’orizzonte un crescente impegno economico di natura pubblica che siano mutui bancari o erogazioni dirette delle amministrazioni locali. Al riguardo è opportuno ribadire la nostra contrarietà a qualsiasi impiego di risorse pubbliche in tale progetto. A fronte di una endemica scarsità/illiquidità finanziaria delle amministrazioni locali e di un palese stato di abbandono delle infrastrutture e dei servizi territoriali il denaro investito nel potenziamento di una struttura marginale come l’aeroporto in questione è in palese conflitto con i principi di democraticità e di rappresentanza politica e impone una reazione adeguata da parte della comunità.

Circa gli obiettivi, data la totale disinformazione della popolazione circa gli intendimenti delle amministrazioni locali, possiamo immaginarci (secondo una possibile interpretazione razionale) il tentativo di “rifare il look” ad una vetusta struttura per poter accedere al mercato dei voli low cost e fare business immobiliare secondo una insensata logica dello sviluppo. Lo dimostra l’esperienza (tra l’altro analizzata da CerTet Bocconi) dell’aeroporto di Orio sul Serio rispetto a Bergamo. In quel caso lo sviluppo di un aeroporto in un’area depressa sul piano turistico ha indotto uno crescita esponenziale del settore immobiliare e commerciale, generando una economia di tipo puramente speculativo. Nel nostro caso esiste già una condizione di eccesso di offerta rispetto alla domanda abitativa e un aeroporto potrebbe ad esempio canalizzare investimenti esteri per l’acquisto della “seconda casa”.

Questa situazione richiede un attento monitoraggio dell’impiego di fondi pubblici che non esclude opportune azioni di contrasto politico e fiscale.

Luciano Fiordoni                            20.11.2010

Ambiente e poteri forti nella città di Paolo Berdini

Da Il Manifesto: 21.11.2010

Alberto Asor Rosa nel delineare i caratteri di un nuovo ambientalismo (manifesto del 17.11) sottolinea «il conflitto inesauribile e insanabile con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento». Concordo, e la sua analisi permette di ridare spessore all’elaborazione della sinistra. Provo ad articolare il ragionamento nel campo delle città e del territorio, dove si possono misurare quattro novità che hanno mutato i contorni del conflitto e impongono dunque di mutare strategia.
Innanzitutto la lacerazione dello storico “patto” tra cittadini e forze economiche dominanti.
Lo sviluppo delle città era affidato ai piani regolatori e la tutela dell’ambiente ai vincoli previsti dalle prerogative costituzionali dell’Articolo 9. Nonostante scempi e violazioni, c’era comunque un sistema di regole che garantiva un quadro di legittimità. Il neoliberismo ha sostituito ogni regola con gli “accordi di programma” che mutano caso per caso il disegno delle città e azzerano i vincoli paesaggistici. La proprietà fondiaria, un ristrettissimo numero di persone, edifica dove e come vuole.
La seconda novità riguarda il carattere teoricamente infinito dell’offerta di nuove costruzioni. Si continua a ricoprire di cemento l’Italia perché “c’è mercato”. Uno dei pilastri dell’economia liberale classica sono le regole del gioco e nell’Europa civile le nuove costruzioni vengono programmate salvaguardando gli interessi pubblici. Non ci sono altrimenti dubbi che se si costruisse sulle colline ancora integre della Toscana, in ogni valle alpina o sulle coste ancora scampate dal cemento, si troverebbero potenziali acquirenti nei 50 milioni di ricchi russi, nei 200 milioni di nuovi ricchi cinesi. Poi verranno gli indiani e i brasiliani.
Non c’è chi non comprenda il baratro che si è aperto nell’aver supinamente accettato la favola del “mercato”: rischiamo la cementificazione del paese e non serve a fermarla neppure la tragica serie di alluvioni e frane. Oltre all’insipienza culturale dei gruppi dirigenti della sinistra, si dovrà mettere a fuoco l’intreccio perverso tra i proprietari delle aree da urbanizzare, le grandi banche e l’informazione (Messaggero, Mattino, Corriere della sera, Tempo, Gazzetta di Parma e un’infinità di giornali locali).
La terza novità è una diretta conseguenza della sinergia tra le due precedenti. Se non ci sono più regole e se non esiste più un limite all’ipertrofia urbana, si sta creando un corto circuito economico che porterà al collasso il tessuto produttivo del paese. La speculazione fondiaria ha davanti una comoda autostrada per rendere edificabili i terreni agricoli. Vengono comprati a 10 – 15 euro al metro quadrato e non appena l’accordo di programma li rende edificabili raggiungono il valore di almeno 200 euro. Con dieci ettari di terreno che cambia destinazione, la speculazione si mette in tasca 20 milioni di euro senza nessun beneficio per la collettività perché non si crea neppure un posto di lavoro. Il lavoro, la ricchezza per le città e per tanti lavoratori si crea costruendo. In Europa obbligano a farlo su terreni già edificati, dove i valori immobiliari sono elevati e chi costruisce guadagna soltanto sulle sue capacità imprenditoriali. Chi mai investirà nel difficile mestiere dell’imprenditore o dell’artigiano se stando comodamente seduti può mettersi in tasca una fortuna?
E veniamo infine all’ultima tragica novità italiana. I comuni non hanno più risorse per realizzare servizi sociali, parchi, trasporti scuole. Per tenere in piedi i bilanci, i comuni e le loro società strumentali hanno fatto ricorso all’indebitamento sottoscrivendo quei titoli spazzatura che hanno portato al tracollo l’economia occidentale. Roma ne ha sottoscritti per oltre un miliardo di euro. Milano un’altra valanga, e così via. Afferma Loretta Napoleoni che le pubbliche amministrazioni «invece di cercare di risparmiare, sono andate dalle banche d’affari. La banca dice: tu devi pagare queste fatture per i prossimi due anni? Bene: me le compro io, ti do subito i soldi, e intanto emetto obbligazioni che poi vendo in borsa».
Per tenere in piedi i bilanci, poi, tutti i sindaci, di qualsiasi colore politico, affermano che l’unico modo è quello di moltiplicare all’infinito nuove costruzioni. Ma se non ci sono più soldi sarebbe interesse di tutti bloccare l’espansione senza fine che ha interessato le città italiane nell’ultimi sedici anni. Come si può pensare di costruire nuovi quartieri quando non si hanno neppure i soldi per costruire l’illuminazione pubblica e quando ci sono infinite aree produttive dismesse e case vuote? Se questa è la diagnosi, non bastano vecchie ricette. Occorre cambiare gioco e provo ad elencare le mosse che dovremmo mettere in campo al più presto.
Primo. Occorre bloccare per legge ogni espansione urbana, vincolando i comuni a ricollocarle all’interno delle aree già edificate e in stato di abbandono. Il settore delle costruzioni è un pilastro dell’economia dei paesi europei, ma per aprire una fase virtuosa anche in Italia occorre rompere per sempre il circuito infernale della rendita assoluta. Questa legge potrebbe partire dal basso, seguendo la proposta di Guido Viale, raccogliendo firme in ogni angolo dell’Italia violentata dal cemento e contrastata dai mille comitati spontanei. Secondo. Concludere per sempre la criminale stagione degli accordi di programma: basta un semplice articolo. Strillerà (molto) il manipolo di speculatori che nel periodo del trionfo berlusconiano hanno conquistato le città e distrutto l’ambiente. Terzo. Occorre restituire ai comuni – in un quadro di rigoroso controllo della spesa- i soldi tagliati per metterli in grado di governare le città. Non so se questa proposta sia collocabile nel comoda casella “dell’estremismo”: lascio questo inutile esercizio alla fallimentare politica di questi anni, utilizzata ancora di recente dopo la splendida vittoria di Pisapia nelle primarie di Milano. So soltanto che è l’unica ricetta per ristabilire un futuro al nostro paese: ridare voce al popolo derubato in questi anni dei beni comuni per eccellenza, le città e l’ambiente.
Prosegue il dibattito sul “che fare” per invertire la devastante tendenza in atto, nel mondo e in Italia. Tre cose da fare per partire dalle città. Il manifesto, 21 novembre 2010

IDEE ANTIECOLOGISTE (anche) a sinistra di Enzo Scandurra

Da Il Manifesto  20.11.2010

Commentando Viale e Asor Rosa: l’ideologia dello sviluppo è un avversario potente quanto lo sono «i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento».
Nell’articolo pubblicato su il manifesto del 17 novembre (Il neoambientalismo italiano) Alberto Asor Rosa riprende una riflessione di Guido Viale ( il manifesto del 7 novembre) in merito ai modi del cambiamento (nella produzione, nel modello di sviluppo) – che per Viale non possono che partire “dal basso” – svolgendo alcune considerazioni in ordine agli ostacoli che a tale cambiamento si oppongono. Oggi assistiamo a una crescente diffusione mediatica delle nuove tecnologie non inquinanti come: solare, eolico, fotovoltaico, che va nella direzione di una sorta di vero e proprio nuovo business. L’impressione è che lo sviluppo – questo malsviluppo – rimane una variabile indipendente da realizzare semmai non più attraverso l’uso dei fossili, ma delle energie alternative.

 Lungo questa strada è mia opinione che non si produce alcun nuovo e vero cambiamento, ma solo una correzione di rotta che, prima o poi, tornerebbe ad essere ortogonale all’ambiente. E infatti a Viale non sfugge il fatto che la produzione di energie alternative dovrebbe avvenire in concomitanza di una nuova classe dirigente e il loro utilizzo in modo diffuso a livello di singoli e comunità, fino a produrre un cambiamento anche antropologico degli stili di vita e dei comportamenti individuali. Del resto lo stesso problema si presenta per lo smaltimento dei rifiuti: è ormai noto che la raccolta differenziata non è solo una opzione tecnica, ma, prima ancora, culturale e antropologica (facendo raccolta differenziata ci si rende conto di ciò che scartiamo e come viviamo). L’attuale modello di consumi e di stili di vita (almeno oggi nel mondo occidentale) non è sostenibile neppure se si sostituisse tutta l’energia fossile consumata con energia pulita. Inoltre le fonti energetiche rinnovabili non basterebbero mai (almeno oggi) a rimpiazzare l’attuale fabbisogno energetico. E allora?
Ecco che subentra la centralità della questione culturale. Consumare meno e meglio, o diversamente, è la ricetta del futuro. In questa prospettiva, l’uso di fonti energetiche rinnovabili costituirebbe, come nel caso della raccolta differenziata, di innescare una «rivoluzione culturale» il cui obiettivo diventa quello dell’abbandono dell’attuale modello di sviluppo verso stili di vita più sobri e in armonia con l’ambiente. Ma questa operazione, appunto, è tanto più efficace quanto più scelta consapevole delle comunità insediate (vedi l’esempio delle «mamme vulcaniche» di Terzigno). Sempre in questa prospettiva il ruolo virtuoso del territorio diventa strategico: da supporto fisico inerte produttore di rendite parassitarie a luogo dell’abitare, territorio di comunità, luogo esso stesso di produzione. Ma veniamo all’articolo citato; Asor Rosa sostiene che esistono tre ostacoli al cambiamento dal basso e che di questi tre il primo: «il conflitto inesauribile e insanabile (…) con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento» costituisce, rispetto agli altri due (l’ideologia dello sviluppo e l’assenza delle forze politiche sulla questione ambientale) il nemico naturale di ogni difesa del territorio, essendo gli altri due «invece, nemici occasionali, episodici e dunque parzialmente recuperabili». Ebbene io penso, pur condividendo la tesi di Asor Rosa, che se il primo degli ostacoli citati costituisce una resistenza tenacissima al cambiamento anche il secondo ostacolo da lui citato (che per semplicità chiamo l’ideologia dello sviluppo), rappresenta un nemico altrettanto tenace del primo. Siamo davvero convinti che l’ideologia dello sviluppo, di questo sviluppo, sia giunta a capolinea? Paradossalmente, a me sembra, che la presunta fine di questo modello sia più nei fatti che nelle idee delle persone. E infatti molte delle calamità disastrose in Italia e fuori dal paese testimoniano che oggettivamente questo modello di sviluppo produce ormai un altissimo livello di aggressività nei confronti dell’ambiente, tale da mettere a repentaglio gli ecosistemi naturali di supporto alla vita.
Tuttavia dal punto di vista culturale (e ancor più politico) siamo così imbevuti di questa ideologia da far fatica a pensare che possano esistere modi diversi di benessere. Implicitamente funziona una sorta di automatismo antropologico secondo cui abbandonare questa strada significherebbe regredire nel passato del sottosviluppo. Le idee e le abitudini (ancorché sbagliate e destituite di fondamento) sono tenaci a morire (proprio come il berlusconismo) e tendono a persistere anche quando ormai sono mutate le condizioni che le hanno prodotte, se nel frattempo non si affermano nuove idee e nuove abitudini più convincenti e più adeguate al cambiamento.
Sto parlando, per intenderci, di quella cosa chiamata da Gregory Bateson «ecologia delle idee». Bateson soleva dire che se vogliamo raggiungere un fine, diciamo così, ecologico allora anche i mezzi che utilizziamo per raggiungere questo fine devono essere altrettanto ecologici. Molti dei nostri comportamenti di sinistra peccano di questo vizio, una sorta di scissione (antiecologica) tra pensiero ed azione ogni qualvolta, ad esempio, che un’amministrazione (di sinistra) ritiene (e decide di conseguenza) che fare grandi opere, celebrare grandi eventi, far diventare le nostre città come Barcellona o Parigi o Dubai, sia un segno di modernizzazione. Tutto questo per dire che nel grande convegno annunciato (e benvenuto nel panorama italiano) da Asor Rosa sul tema «disastro Italia», sarebbe forse opportuno lasciare lo spazio e l’opportunità per parlare anche del disastro conseguente alle nostre idee antiecologiche (non meno dannose dei combustibili fossili) che pure albergano nella sinistra. Idee come: competizione, efficacia, efficienza, modernismo, innovazione, velocità (alta velocità)… e la lista sarebbe assai lunga a volerla stendere.

>Il Neoambientalismo di Asor Rosa su Il Manifesto del 17 – 11 – 2010

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In un suo recente articolo (il manifesto, 7 novembre) Guido Viale ci invita a «cambiare dal basso». Provo a mettermi il più direttamente possibile sulla sua lunghezza d’onda. Da più di quattro anni dirigo, coordino, assisto (la varietà delle prestazioni dipende dai gusti e dalle circostanze) una singolare organizzazione, che si è denominata: Rete dei Comitati per la difesa del territorio (da due anni divenuta anche Associazione, regolarmente «registrata» come tale). Sulla singolarità di tale organizzazione conviene soffermarsi un momento, perché ne deriva tutto il resto del ragionamento.

La Rete nasce dalla scelta spontanea e volontaria di un certo numero di Comitati di base, legati a loro volta all’identità di alcune battaglie locali (locali, ma non necessariamente di limitate dimensioni: basti pensare a casi come il sottoattraversamento Tav di Firenze o l’Autostrada tirrenica), di federarsi stabilmente in una sorta di mappa organizzata delle esperienze e delle strategie. La costituzione della Rete ha favorito l’incontro dei Comitati con alcune volonterose forze intellettuali, che ne rappresentano al tempo stesso la struttura di servizio e un luogo di originale elaborazione strategica. I due momenti non sono minimamente dissociabili; e non si rapportano fra loro in una specie di nuova gerarchia del potere (spesso, infatti, l’elaborazione strategica nasce in corso d’opera all’interno anche di un singolo Comitato, magari particolarmente avvertito). La Rete dei Comitati, intesa e praticata in questa forma, è ciò che noi siamo abituati a definire «neoambientalismo italiano», per distinguerlo dall’esperienza storica (per carità, positivissima) di altre associazioni ambientaliste più centralizzate e gerarchizzate.

La Rete è nata ed diffusa prevalentemente in Toscana, ma ha agganci e rapporti con situazioni liguri, venete, umbre, marchigiane, romane, laziali. Dialoga con le altre Associazioni (Italia nostra, Legambiente, Wwf), di volta in volta incontrandosi e distinguendosi. Ha rapporti eccellenti con il Fai. Recentemente ha aperto un canale di confronto e di scambio con un altro movimento, diverso ma consimile, «Stop al consumo di territorio», presente a sua volta soprattutto in Piemonte e Lombardia (ma anche altrove). Ma esperienze di Comitati sono attive in Italia ovunque. Anzi, più esattamente, ce ne sono in giro centinaia, di dimensioni che vanno dal microscopico ai supermassimi (NoTav di Val di Susa). Confinano o talvolta s’integrano con altre esperienze analoghe (Forum dell’acqua); invadono autorevolmente il campo istituzionale (lista «Per un’altra città», ben insediata nel Consiglio comunale di Firenze).
Insomma, i Comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana. Anche per il solo fatto di esserci, appunto. Ma qualche ragionamento ulteriore può essere fatto. Gli ostacoli al cambiamento dal basso – per tornare all’indicazione di Viale – sono, a giudicare dalle mia esperienza, variabili e molteplici, ma tre sempre e ovunque risaltano. Sono: 1) Il conflitto inesauribile e insanabile, piccolo o grande che sia, con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento, che si manifestano in mille modi, da quello dichiaratamente delinquenziale a quello puttanescamente istituzionale; 2) la debolezza della risposta ad parte di una larga parte dell’opinione pubblica, e della maggior parte dei grandi mezzi di uno stravolto e magari morente (ma tuttora micidiale) modello di sviluppo (ancora Viale); 3) la pressoché totale sordità nei confronti di queste tematiche da parte di tutte (ripeto per brevità: tutte, ma potrei anche specificare) le forze politiche di livello nazionale. Il primo dovrebbe essere il nemico naturale di ogni difesa del territorio, della conservazione dei beni culturali, più in generale di una buona qualità della vita. Gli altri due, invece, nemici occasionali, episodici e dunque potenzialmente recuperabili: ma come? Ma quando?
Perché questi due obiettivi, che sono decisivi, si concretizzino e si avvicinino, bisogna secondo noi (qui esprimo il parere collettivo della Rete) imprimere alla battaglia ambientale un’accelerazione sia culturale che politica (il binomio qui è meno formale che altrove). Tale battaglia ruota sempre di più intorno alla nozione di «bene comune» (mi permetto di richiamare a tal proposito un mio articolo apparso nel dicembre 2008 su la Repubblica): le eredità culturali e artistiche, l’ambiente, il paesaggio, vanno intesi alla lettera, al pari dell’aria e dell’acqua, come patrimonio inalienabile delle generazioni umane presenti e anche, o forse soprattutto, future (si vedano, anche, gli studi e le proposte legislative elaborati in varie fasi da Stefano Rodotà). Su questo fondamento, una volta acquisito e diffuso, si possono basare una nuova cultura e una nuova politica, intese anch’esse nel senso più vasto.
In una recente riunione (Roma, 6 novembre) del Consiglio scientifico di cui la Rete si è dotata e della sua Giunta (illustrati, l’uno e l’altra, dalla presenza di molti dei più prestigiosi studiosi e specialisti del settore), sono state assunte due iniziative che si muovono nel senso predetto. La prima è la convocazione di una Conferenza nazionale dei Comitati che si occupano ovunque di difesa del territorio: l’obiettivo potrebbe esser quello di creare, non una Rete nazionale, ma una Rete di Reti, coerentemente con lo spirito del neoambientalismo, che non prevede, né in loco né fuori, rapporti gerarchici di direzione. La seconda è l’avvio della preparazione d’un grande Convegno, anch’esso nazionale, tematizzato su quello che potremmo sinteticamente definire: «Il disastro Italia», nel quale convogliare, in termini sia analitici sia di denuncia sia di progettualità propositiva, la grande risorsa intellettuale dei Comitati, accompagnata e intrecciata con quella dei molti studiosi e specialisti che l’hanno accompagnata, e che speriamo sia destinata a rafforzarsi ancor di più nel prossimo futuro.
Crescere dal basso dunque si può, ma solo se si contestualizzano e si organizzano, su di un orizzonte strategico più vasto, gli innumerevoli focolai locali. Il «salto di scala» è necessario perché ognuno di essi acquisti forza, allargando intorno a sé il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura. Mentre si studiano i modi per far fuori il cadavere di Berlusconi, e al tempo stesso si aprono le grandi manovre per assicurare la perpetuazione indefinita del berlusconismo, potrebbe essere questa una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme con la salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia.